Io e la natura | 22° puntata

Cronache di una cittadina trapiantata su un selvaggio bricco del cuneese

di Manù

 

Sono senza acqua in casa.
Si fanno tanti discorsi su quanto l’acqua sia una risorsa preziosa che non va mai sprecata, principio sacrosanto che mi causa da sempre qualche senso di colpa quando mi concedo una doccia più lunga del necessario, ma a parte questo, nella normalità delle cose, non c’è niente di più scontato che vedere sgorgare l’acqua dal rubinetto nel momento in cui lo si apre.
Non ci si chiede da dove viene, che strada fa per arrivare fino a noi, se ce n’è tanta o poca, quanto e quale lavoro è stato fatto.
Tutte domande che ho dovuto pormi nel momento in cui aprendo il rubinetto non è uscito un bel niente.

La risorsa idrica di questa borgata e di quella subito sotto non dipende da alcun acquedotto comunale, bensì da una vasca di raccoglimento alimentata da una sorgente.
Per raggiungerla bisogna prendere la strada che porta alla borgata, 600 metri in salita, scendere giù per un sentiero che si inoltra nel bosco, poi salire su per una riva, scendere giù, salire su, scendere giù e andare a sinistra.
Ed eccola lì, la vasca di raccoglimento, con la sua aria misteriosa e antica.

Ottant’anni fa, uomini di buona volontà hanno fatto uno scavo con pala e piccone, collegando un tubo da lì a qui, da qui a là, assicurando alle due borgate una scorta di acqua potabile costante.
O quasi.
Il mio vicino del fine settimana – che può tranquillamente andare a casa sua in pianura e farsi una doccia – parte in missione con altri due villici per capire cosa sia successo.
Magari c’è qualcosa nella vasca che ostruisce il passaggio dell’acqua.
Aspetto fiduciosa, ma li vedo tornare dopo un po’ scuotendo la testa.
A parte un ghiro morto e due salamandre vive, nella vasca non c’è niente di anomalo. L’acqua entra da una parte e esce dall’altra, come ha sempre fatto.
Esclusa l’ipotesi dell’’ostruzione e quella dell’aria nell’impianto, rimane la peggiore, che un tubo si sia rotto nel tratto da lì a qui.
Il problema è capire dove.
Più di un chilometro e mezzo di bosco, rive scoscese coperte di rovi e le previsioni del tempo danno neve imminente.
Prendo atto del disastro e come prima cosa mi bevo subito un pastis.

Sta calando la sera e l’unica cosa che si può fare è racimolare tutte le bottiglie e taniche che troviamo e andarle a riempire a una fontana tre borgate più giù.
Il giorno dopo decidiamo di chiamare l’uomo con lo scavatore e andare a cercare la perdita.
Decido di andare anch’io brandendo un enorme pinza a pappagallo, dal momento che uno ha una pala e l’altro uno scavatore, ho bisogno di darmi un tono.
L’unico modo per capire dove il tubo si è rotto è intuire dove passa e cercare un punto in cui il terreno è molto bagnato.
Peccato che negli scorsi giorni sia piovuto e sia bagnato dappertutto.
L’uomo con lo scavatore si guarda intorno e scuote la testa.
Non è possibile fare questo lavoro in questa stagione, il terreno è troppo molle, troppo pericoloso, se ne riparla a primavera.
Prospettiva: tutto l’inverno senza acqua.

Tornata a casa bevo subito un altro pastis.

 

Gli unici due che rimangono qui tutto l’anno siamo io e il mio vicino cieco, ma l’uomo dei fine settimana non ci abbandona, ha un idea.
Nella borgata sopra di noi c’è una fontana che getta continuamente, forse si può collegare un tubo da lì all’impianto che porta acqua alle due case.
Sì, può funzionare, ma bisogna che organizzi il tutto da sola perché lui deve tornare a casa.
Per farmi coraggio bevo subito un altro pastis.
Dunque.
Prima di tutto bisogna capire quanti metri di tubo sono necessari.
Vado alla fontana e conto un metro ogni passo, fino al raccordo delle due case.
Cinquecentosettanta.
Chiamo l’uomo tuttofare e gli chiedo chi può venderci cinquecentosettanta metri di tubo per l’acqua.
Lui si impietosisce prendendosi a cuore la causa e parte a cercarli, li trova, arrotondando a seicento metri, me li porta e si rende disponibile per aiutarmi a metterli.
Quando vedo il conto del tubo, bevo subito un altro pastis.

 

Srotolare sei bobine da cento metri l’una, su per le rive, in mezzo a piante e rovi non è così immediato.
Dopo una giornata di lavoro ci troviamo di fronte a un altro problema.
Come cavolo colleghiamo il tubo alla fontana?
Proviamo a mettere una vaschetta che faccia da troppo pieno sotto il getto dell’acqua e vi colleghiamo il tubo.
Niente.
Non c’è abbastanza pressione per spingere via tutta l’aria e l’acqua non arriva.
È quasi buio, siamo stanchi e io un po’ disperata, è prevista neve per il giorno dopo, decidiamo di infilare il tubo direttamente nella bocca della fontana, è un rischio, se l’acqua che entra è di molto maggiore di quella che esce può far scoppiare l’impianto di casa.
Ma funziona!
Dai rubinetti sgorga abbondante acqua, dobbiamo tenerne uno sempre aperto per evitare l’esubero e il gelo, ma funziona.
Per quattro giorni.
Poi il mattino del quinto più niente.
Non una goccia.

Bevo un pastis.

 

Il tubo è gelato nottetempo.
Svitando il primo raccordo, il più vicino alla fontana, il tappo di ghiaccio appare subito evidente.
Non capisco come sia possibile, tutti mi dicono “se l’acqua scorre non gela”.
Ma l’acqua scorreva ed è gelata lo stesso.
Torno verso casa piena di preoccupazione e sconforto, pensando, quasi quasi mi bevo un pastis.
Ma mi trovo in cortile un uomo che ha la casa nella borgata più giù, che armato di piccone (non ho capito perché) ha deciso spontaneamente di venire a vedere se va tutto bene.
Preso atto che bene non va, decide di passare una domenica alternativa e con suo figlio, che in moto fa da staffetta per portargli il necessario, si mette a sgelare il tubo pezzo per pezzo, in alcuni punti usando un cannello a gas.

 

Abbiamo ripristinato la vaschetta, sollevandomi dal timore che l’impianto si riempa troppo.
Adesso ho di nuovo l’acqua, ma nel dubbio ho riempito taniche e bottiglie, perché come ha gelato una volta, può gelare ancora.

Sono profondamente grata a questa gente di paese che si è presa a cuore la causa di due pazzi, il vecchio cieco e la meno vecchia con il suo stuolo di gatti, che invece di abitare in una casa comodamente rifornita dall’acquedotto comunale, si ostinano a stare in mezzo ai boschi.

L’inverno è lungo, sono qui, un po’ sollevata al pensiero di potermi lavare tutte e due le mani contemporaneamente, in compagnia dello scroscio d’acqua del rubinetto che sono costretta a tenere sempre aperto, piena di dubbi, lo apro poco, lo apro tanto, entra aria nell’impianto, gelerà, non gelerà.
Non so cosa aspettarmi domani.
Nel dubbio, mi bevo un pastis.

 

Foto di Manù e Andrea Ferrante
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