USA: il colore dei riots

di Ferdinando Fasce
Vignetta di Liza Donnelly

 

A proposito delle drammatiche immagini di protesta afroamericana e antirazzista scoppiata a Minneapolis e in altre città degli Stati Uniti qualcuno ha usato la parola riots, rivolte. È il caso di ricordare che l’espressione venne usata per la prima volta per indicare “disordini” di natura razziale oltre un secolo fa, a cavallo fra Otto e Novecento. Ma all’epoca indicava gli improvvisi attacchi inscenati da bianchi, spesso rispettabili, spesso di ceto medio, contro i neri da poco approdati alle città del Sud e soprattutto del Nord, in cerca di condizioni meno inique di quelle nelle quali avevano continuato a vivere, nonostante l’abolizione delle schiavitù, nelle campagne del Sud. Meno inique, ma che non escludevano l’eventualità di essere presi a sassate dai bianchi per la presunta concorrenza sul mercato del lavoro o più spesso per il solo fatto di sfidare l’ideale di una società razzialmente monocolore.
Riots del genere si ripeterono negli anni a cavallo della Grande guerra, mentre si infittiva, causa la domanda di braccia suscitata dalla mobilitazione bellica, la grande migrazione nera verso le città, in particolare, ma non solo, del Nord. Ecco allora scontri razziali particolarmente violenti a St. Louis e a Chicago. Ecco una ventina di città investite da sommosse razziali nel 1919. Ecco incidenti ancora l’anno successivo, mentre mordeva la breve, ma terribile, recessione, frutto della travagliata riconversione postbellica internazionale. Con una differenza, però, tra questi riots, sempre scatenati dai bianchi, e quelli di vent’anni prima. In questo caso per la prima volta i neri non si limitavano a cercare di sfuggire alla “caccia all’uomo” che riempiva le cronache dell’epoca. Ma provavano a rispondere, con l’autorganizzazione di quartiere, forti del fatto di essere diventati di più, e di aver acquisito nel frattempo, prestando servizio nell’esercito, per quanto in reggimenti rigidamente segregati, una nuova consapevolezza dei propri diritti di cittadine e cittadini. Una consapevolezza che il contributo fornito durante il Secondo conflitto mondiale non fece che rafforzare, trovando espressione poi, nel dopoguerra, nel vasto movimento per i diritti civili.
Il che non impedì che, di fronte alle resistenze al cambiamento da parte della società bianca, la parola riot tornasse con forza a metà anni Sessanta, questa volta a indicare, con gli incendi nei ghetti di Los Angeles, Detroit e altre 126 città nel Paese, una drammatica presa di parola della componente più povera della società: la sua richiesta, come disse Martin Luther King, di “essere ascoltata”. Mezzo secolo è passato da allora. Gli afroamericani hanno addirittura varcato le soglie della Casa Bianca. Ma arriva il coronavirus e li troviamo regolarmente in testa alle percentuali di malati. A Minneapolis, dove i neri, quasi un quinto della popolazione, hanno nove probabilità più dei bianchi di venir arrestati per reati minori, viene denunciato l’ennesimo caso di violenza della polizia. Di fronte alle proteste, il presidente Trump, che in maggioranza non hanno eletto, ma è il loro presidente, dice che l’unica soluzione è applicare la forza militare. Come se il secolo di storia che abbiamo appena ripercorso non ci fosse stato. E non fosse il caso di considerare la questione razziale come un problema strutturale, da risolvere con politiche adeguate, senza strepiti affidati a un tweet.

Articolo pubblicato in contemporanea sul Secolo XIX, 2 giugno 2020, con i titolo Le radici antiche delle rivolte in USA

 

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