Sorelle d’Italia

di Pat Carra e Ida Dominijanni

 

 

La nave distopica di Giorgia e i suoi fratelli

di Ida Dominijanni
da L’Essenziale – 26 agosto 2022

Conosco molte femministe che non prendono neanche in considerazione l’ipotesi di votare per Giorgia Meloni, a causa delle sue idee e nonostante sia una donna. Non ne conosco nessuna intenzionata a votarla in quanto donna e nonostante le sue idee. Sarà pure un sondaggio personale e limitato, ma magari fornisce una piccola bussola per orientarsi nel dibattito assai confuso e non poco strumentale che sta montando sul tema e che, come sempre quando si discute di femminismo e politica, ha come principale obiettivo la spettralizzazione e la colpevolizzazione del femminismo.

Per spettralizzazione intendo la pessima abitudine di parlare del femminismo approssimativamente, senza riguardo per la sua storia, le sue articolazioni interne, le sue trasformazioni maturate nel susseguirsi delle stagioni politiche; e quindi facendone una galassia confusa che riparte ogni volta dal grado zero su ogni questione. La colpevolizzazione ne consegue: così rappresentato, il femminismo si può sempre cogliere in castagna per qualche cosa.

Esempi. Non è vero che “il femminismo” abbia mai fatto proprio lo slogan di “una donna” presidente del consiglio, o della repubblica o in altri ruoli apicali, lanciato a più riprese da pezzi di opinione pubblica femminile progressista. Il femminismo radicale l’ha anzi contestato vibratamente, l’ultima volta durante l’elezione del presidente della repubblica: primo perché “una donna” senza un nome e un cognome non esiste, secondo perché “una donna” senza ancoraggio nella politica delle donne non è una garanzia per nessuna, terzo perché il problema, per il femminismo radicale, non è mai stato quello di espugnare o di spartire i vertici della politica maschile, ma di cambiarla.

Secondo esempio. Non è di oggi l’illusione, di recente rilanciata da una petizione promossa da Marina Terragni e contestata da Natalia Aspesi, che tra donne si possa creare un fronte unitario, basato su istanze condivise e trasversale alle appartenenze politiche. E non è di oggi neanche la disillusione, perché se ognuna è in primo luogo una donna nessuna è soltanto una donna e le appartenenze, politiche nonché sociali e culturali, contano, così come contano le differenze e i conflitti interni al femminismo su temi importanti che tanto condivisi non sono, e che alla faccia del trasversalismo portano acqua al mulino di certe forze politiche e non di altre: se della maternità o della gestazione per altri si parla negli stessi termini di Giorgia Meloni se ne avvantaggerà Giorgia Meloni, bisogna saperlo e magari anche avere la schiettezza di dirlo.

Terzo e ultimo esempio. Non è nemmeno di oggi, né di ieri l’altro, la scoperta che nel centrodestra la promozione di alcune donne in ruoli di rilievo è meno infrequente che nel centrosinistra: tema e svolgimento risalgono nientemeno che all’elezione alla presidenza della camera di Irene Pivetti, nell’ormai lontano 1994. Già allora era chiaro – molto se ne discusse, e molto si trarrebbe di utile per l’oggi rileggendo quella discussione – che nel campo berlusconiano si faceva avanti un protagonismo competitivo femminile, aiutato dalla cooptazione maschile, che spiazzava un centrosinistra dove il secondo sesso restava immancabilmente tale. Trent’anni dopo, la resistibile ascesa di Giorgia Meloni a candidata presidente del consiglio ci rimette di fronte alla stessa evidenza, accentuandola.

È un po’ poco però cavarsela contrapponendo al curriculum di Meloni quello di Elly Schlein e continuare a prendersela con l’incapacità dei leader del Partito democratico di cedere il passo al gentil sesso: forse c’è sotto un difetto d’analisi più sostanziale, nonché una granitica incapacità delle donne del centrosinistra di metterlo a fuoco e correggerlo. Né si può all’inverso continuare a invocare la separazione dei destini del femminismo da quelli della sinistra: quel taglio è stato fatto una volta per tutte dal femminismo della differenza negli anni settanta, e non mi pare che qualcuna l’abbia mai revocato per occuparsi della “salvezza della sinistra”.

Temo dunque che rivangare questo tipo di questioni serva a poco per mettere a fuoco “l’elefante nella stanza”, come l’ha definito Giorgia Serughetti, ovvero il fatto che la prima donna candidata a guidare il governo in Italia sia una leader quarantacinquenne della destra radicale che con la politica delle donne non ha niente a che fare. Proporrei piuttosto di capovolgere il cannocchiale, e provare a capire non come noi la guardiamo ma come lei guarda noi, la storia d’Italia e il presente che abitiamo.
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