di Sergio Fontegher Bologna
Foto di Umarell

L’energia accumulata nelle manifestazioni per la Palestina deve tradursi nel rimettere in discussione i rapporti di potere nei paesi capitalistici e in particolare nell’Italia di Meloni. Che sia questa la nostra maggiore preoccupazione.
Per ottenere migliori condizioni di vita e di lavoro dei giovani intrappolati nella gig economy, dei freelance, dei precari della scuola e della sanità, dei salariati dell’industria, degli schiavi della raccolta pomodori o della logistica. Perché questo e non altro significa cambiare i rapporti di potere.
In parte era il tema sollevato da Chris Smalls, il leader del sindacalismo americano in Amazon, alla festa del manifesto a Roma. Ripreso in una successiva intervista ad Al Jazeera (sia il dibattito che l’intervista si trovano facilmente in rete). Smalls dice che la gente fa fatica a vedere il nesso tra la condizione palestinese e quella dei lavoratori dei paesi capitalistici e che ha perso migliaia di sostenitori quando dalla lotta per il riconoscimento del sindacato è passato alle azioni per la Palestina.
È quello che potrebbe capitare anche a noi, se allarghiamo l’orizzonte del conflitto. Troveremmo gente che dirà: «I palestinesi muoiono di fame, gli operai della Stellantis hanno la cassa integrazione, perché dovremmo occuparci anche di loro?».
Eppure questa sfida dobbiamo affrontarla, tutte le esperienze del passato ce lo insegnano, la solidarietà internazionale, quella che una volta chiamavamo «internazionalismo proletario», il test doveva affrontarlo sulla capacità d’incidere e di sconfiggere il nostro sfruttamento. Ce lo chiedevano gli stessi movimenti di liberazione cui davamo appoggio materiale e non solo.
Se persino il presidente della Repubblica si è deciso finalmente a dire una parolina sulla questione salariale, vuol dire che nelle alte sfere qualcuno ha capito che la situazione sociale in Italia ha toccato un punto critico. E qualora le energie di liberazione e di rivolta sprigionatesi nelle manifestazioni per la Palestina dovessero prendere la strada giusta, le cose potrebbero cambiare. Ma sul serio.
Inoltre, c’è un’altra considerazione da fare.
La situazione a Gaza è complessa, la spinta ad appoggiare la causa palestinese può frammentarsi e dividersi. Potrebbe succedere il peggio del peggio e cioè che di tutta questa energia accumulata rimangano soltanto dei residui focalizzati sulla contrapposizione fisica. Mentre la sua grande forza è stata quella di essere un movimento pacifico e di massa. Perché sia di massa un movimento non può che essere pacifico, pur nella sua intransigenza. Così può contare sul piano dei rapporti di potere e non ridursi a pura testimonianza.
*L’articolo è stato pubblicato il 20 ottobre 2025 su Officina Primo Maggio e su il manifesto
