Occhio!

di Laura Marzi
Illustrazione di Pat Carra


Andavo poco a lezione quando facevo l’università. Per la precisione, non ho mai frequentato durante la triennale e ho iniziato solo alla specialistica. Quando ho finito il liceo e mi sono trasferita a Bologna e poi a Torino ritenevo inconcepibile, potendo scegliere, andare in via Zamboni o a Palazzo Nuovo, in una classe, a un orario stabilito. Facevo Lettere e c’era sempre un programma per non frequentanti. Certo non mi spaventava il manuale aggiunto, era un prezzo che pagavo senza nessuna frustrazione, come coi soldi che spendo per le sigarette. Con la specialistica le cose sono cambiate. La mia casa a Torino con le amiche era stata sgomberata da venti di passione e vecchiaia precoce. Dal mio appartamento in provincia prendevo volentieri tutte le mattine prestissimo un treno per andare a lezione.
Al seminario di linguistica cognitiva conobbi Wolfang Bublitz e da lui imparai qualcosa di indelebile. Nel suo studio sulla metafora della vista aveva lavorato su come essa, in alcune lingue, abbia generato nuovi campi semantici. In inglese e in francese, I see, Je vois, significano anche: Io capisco. Ho utilizzato il lavoro di Bublitz nella mia tesi di dottorato e in vari articoli scientifici, perché vedere è il presupposto per riconoscere, accettare che l’Altr* esiste. Ignorare l’immagine di un corpo: di una donna, di un afroamericano, di una signora delle pulizie è una prima potente forma di discriminazione. Non avrei mai pensato, però, che sarei ricorsa a Wolfang Bublitz anche per le mie ferie estive e invece penso a Bublitz anche qui, in Calabria, perché mi guardano, ma non mi pare affatto che mi vedano. E io non capisco.
Frequento questo paesino dell’entroterra da circa due anni, ormai. È un luogo semiabbandonato in quella parte della regione a sua volta dimenticata dalle vie di comunicazione. Qui passa una statale e dei trenini. C’è un aeroporto a un’ora di auto, ma i voli hanno pochissime destinazioni, penso due.
Ci sono tornata quando hanno riaperto i collegamenti fra regioni, il tre giugno. Dopo mesi di confinamento in casa, io guardavo dappertutto. Il paesaggio qui è meraviglioso. Passando in macchina, dal sedile del passeggero osservo i dintorni e se davanti ai miei occhi passano case, mi capita di scorgere persone nascoste dietro le tende, che guardano. Entrando nei bar quando ci spostiamo nei dintorni, lo sguardo di chi sta dietro al bancone si fissa in un atteggiamento tra l’attonito e l’ostile. Io mi pento di aver ceduto alla mia insaziabile voglia di andare nei caffè.
Mi è successo di trovarmi sul balcone e di vedere di fronte altri e altre sconosciuti fra i pochi rimasti in paese, sul loro terrazzo. Ho salutato come a chiedere compiacenza, pietà pure, hanno risposto e continuato a fissarmi. Allora mi sono nascosta, l’ho fatto, mi sono abbassata fino a occultare la mia faccia dietro il muro della casa.
Le poche persone del posto che conosco mi hanno detto che succede per la sorpresa: quando vivi in un luogo in cui non passano persone, se non le solite, i rari abitanti, allora guardi, con curiosità e timore, innata diffidenza.
Nel turbamento di questi occhi che fissano come se io fossi un errore e lo è la forma del mio accento, quella del mio culo, il modo in cui chiedo la colazione, è passato il tempo. E io mi sono vista cambiare. Guardo sempre le mucche che incontriamo nella strada che collega il paese alla statale o i campi pieni di olivi, composti da spazi geometrici colorati, perfetti e rassicuranti. Guardo il colore del cielo, come cambia la sera. Anche se il cielo col naso in su qui lo guardo poco. Evito di osservare le persone che incrocio. Le donne che stanno davanti alla porta delle case che precedono la farmacia sulla statale mi fissano mentre io passo coi miei abiti da ragazzina riciclati. E io non ricambio. Ho smesso di controllare se c’è la signora triste che sta sempre sola davanti al suo portone, in piedi. A che serve guardare se non vedi, se non capisco?Ho smesso prima per paura, poi perché mi faceva rabbia sentirmi sotto osservazione e infine perché ho iniziato a capire che io stessa sono una guardona.
Da quando mi ha punta il tafano della gelosia, guardo le altre donne: analizzo se potrebbero piacere al mio compagno e osservo lui che le guarda.
Vedo gli uomini per me belli e le coppie anziane, il loro stare insieme, coi capelli bianchi e i silenzi, con la pace di una conversazione seduti al tavolino di un caffè. Osservo i ragazzini quando stanno insieme, come si guardano, se si dividono fra maschi e femmine. Spio gli innamorati che si baciano, ma lo faccio per pochissimo, perché non è giusto.
E in effetti da tutto questo guardare non ricavo nessuna forma di conoscenza: non so come si porta avanti una relazione per più di tre anni, figuriamoci se so che cosa è stato necessario a quei due signori lombardi che vedo sempre quando scendo al bar sulla statale, che cosa li abbia resi così perfetti e consoni, di cosa sia costruita quella relazione che li tiene uniti e soli, davanti al gelato e a un grappino. Esiste il luogo comune che i ragazzini siano tutti uguali o prevedibili, invece sono giovanissime persone e come tali restano singoli misteri, da scandagliare solo col tempo. Dei baci degli innamorati non conosco il valore esatto: non possiamo farne a meno, eppure si smette di darseli.
Vedo me stessa, insistentemente, le reazioni che ho, le stesse, mi osservo allo specchio, la faccia con le rughe nuove. Eppure non so perché compio sempre gli stessi errori. E neanche faccio la ginnastica facciale.
C’è una donna che mi abita di fronte, la sua casa è esattamente sopra il piccolo appartamento che hanno recentemente aperto come bar: vendono solo birre e dei caffè in capsule. Questo posto ha un balcone, dove gli uomini vanno a fumare – le donne non frequentano il bar – che resta sempre aperto perché è estate. Io la vedo da casa, lei apre le sue ante e si mette seduta esattamente sopra le chiacchiere, le polemiche, i ragionamenti e i pettegolezzi di chi sta al bar, sotto. Loro non la vedono, lei non vede loro, ma li sente e sa tutto.

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