Le sofistiche in fiore

di Francesca Maffioli e Laura Marzi
Illustrazione di Isia Osuchowska

Diletta Gorgia,

la nuova stagione sta principiando e certo ci si interroga, inquiete, su questa calura che infuoca le calli.
Nella polis in cui sono di stanza ormai da numerose lune, in questo tempo dell’anno accade la meraviglia che più mi conquista. Non già da rovine e vestigia di potenza rimango affabulata nell’Urbs, mi ammalia, invece, il profumo dei gelsomini che non si ritrae neanche dinnanzi alla mia polverosa e modesta magione, assalendola, come può fare la grazia e non solo il nemico.
E coi boccioli bianchi che come i baci soprattutto a partir dal vespro donano la loro fragranza, ritorna nel mio spirito il domandar d’amore. Allora vengo a te, Gorgia cara, che con tanta sapienza rispondi al mio interrogare e con compassione comprendi ciò che a volte mi addolora.
Perché, Gorgia mia, accade che ci si ostini a cercare nell’Altr* soprattutto l’impedimento o la riconferma che tale è il nostro destino: essere raminghe e solitarie? Ti chiedo quale incantesimo dover chiedere alle Ninfe per liberare dal petto lo schietto desiderio di apprendere a stare insieme a un amante o addirittura, udite udite, a un compagno. Quale dea, Gorgia mia, devo invocare affinché mi conceda il dono di emanare non più la paura della ferita che non si rimargina, ma la preghiera di essere insieme anche domani, nei mesi, negli anni, fino a che Atropo lo vorrà, proprio come i gelsomini, la notte nella città che da secoli chiamano eterna, liberano la loro fragranza salvifica? Come si diventa generose di sé e fiduciose dell’Altr*, è davvero possibile o una Moira inscalfibile ci condanna al domandare solingo?

Protogora cara,

come sai a Lutetia la canicule infuoca di rado e dei gelsomini nessun soave sentore. Tutt’al più le delizie floreali si vedono, abbracciate in bouquet che ogni settimana presentano le variazioni delle stagioni e delle mode: questi sono i tempi delle peonie, meravigliose nella loro rotondità e abbondanza di petali.
Mi chiedi d’amore, o Protagora, e a tutte le domande che mi poni ancora una volta il mio rispondere sarebbe che non so, oppure che la risposta sta invero nel tuo dimandare. Ma aspetta, provo a sofisticare meglio…
Forse sta proprio in quello che cerchiamo la causa di quello che viviamo come una condanna – perché cerchiamo proprio quell’Altr* che possa confermare che ciò che vogliamo sia quello che chiamiamo il nostro destino. E allora il cruccio: credere di far parte di un destino di raminghe e solitarie, pensando che una profezia che ci siamo costruite attorno sia mandata dagli dei. E allora il guaio: che la profezia autorealizzante si realizzi davvero e allora…Neanche la dea può disfare le sorti.
La mia risposta al come diventare “generose di sé e fiduciose dell’Altr*” è l’incoscienza, in quel modo poco sofistico che sta nell’abbandono di quelle belle redini che ci salvano dalla furia libera del cavallo al galoppo, dalla corsa sfrenata e dalla possibile caduta.
Al bando le Moire, e viva le cavalcate a cavallo senza redini! Incoscienza, non del rischio ma dei dolori – anche atroci – della caduta, che possono arrivare inaspettati come l’abbandono o la perdita dell’Altr*. E poi una volta apprese le cavalcate e le cadute apprendere a condividere il quotidiano più minuto e gli ariosi e rispettivi desideri di solitudine. Sentirsi parte dell’Altr* come di sé, almeno per quel pezzo di cammino che insieme si vuol fare senza troppo scomodare il “finché Atropo non ci separi”.

 

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