Iowa: democrazia da brividi

di Fabrizio Tonello
Illustrazione di Pat Carra

 

Ma la democrazia partecipata funziona a 30 gradi sotto zero? Chiedo perché lunedì 15 gennaio si sono svolti i caucus del partito repubblicano in Iowa malgrado le scuole fossero chiuse da venerdì e il servizio metereologico avesse consigliato a cittadini di restare a casa. I caucus non sono primarie, cioè elezioni in cui tu vai, entri, fai una crocetta sulla scheda e te ne scappi di corsa sul tuo pick-up verso casa. No, i caucus sono riunioni di iscritti e simpatizzanti che esprimono la loro preferenza per uno dei candidati del partito raggruppandosi in un angolo di una palestra, o di un capannone non riscaldato.
Il processo dura varie ore perché, per esempio, il gruppetto dei fedelissimi del governatore della Florida Ron DeSantis, vedendo di essere in minoranza, passa dall’altro lato della sala a rimpinguare le fila dei sostenitori di Nikki Haley. Naturalmente c’è un po’ di mercato delle vacche in tutto questo (come tra i fantini del palio di Siena) e comunque di vacche in Iowa ce ne sono circa quattro milioni mentre gli abitanti sono solo tre milioni.
Che siano le franche discussioni a far cambiare idea ai militanti, o altri incentivi, non lo sappiamo, però sappiamo che le cose vanno per le lunghe e i calcoli per eleggere i delegati sono complicati: nel 2016 ci volle una settimana per sapere chi aveva vinto (anche allora faceva freddo e l’inchiostro gelava nelle biro). Quest’anno dovrebbe essere tutto più semplice: i risultati non sono ancora stati annunciati ma Donald Trump dovrebbe passare come uno schiacciasassi sugli altri politici che sperano di diventare i candidati ufficiali del partito repubblicano alla presidenza in novembre.
Nessuno ha mai capito perché la stagione delle primarie inizi in Iowa, seguito subito dopo dal New Hampshire, entrambi stati dove in gennaio fa un freddo cane, il che non incentiva di certo la partecipazione politica e, soprattutto, assolutamente non rappresentativi degli Stati Uniti nel loro complesso. L’Iowa ha poco più di tre milioni di abitanti ma è 145.000 chilometri quadrati, ovvero metà dell’Italia, diciamo dal Brennero fino a Roma. Il New Hampshire fa ancora meglio: ha appena 1,4 milioni di abitanti.
Per essere più chiari, l’Iowa è come l’Italia del Centro-nord salvo che non ci sono le Alpi né gli Appennini e neppure Milano, Torino, Genova, Bologna, Firenze e Roma. Non ci sono neppure Trieste, Trento Venezia, Parma, Reggio Emilia, Ferrara, Ancona e Perugia: ci sono De Moines, la capitale, che ha la popolazione di Padova, Cedar Rapids e Davenport, più o meno delle dimensioni di Pesaro o Treviso.
In compenso ci sono campi di pannocchie a perdita d’occhio, mucche, maiali e soia sufficiente per nutrire mezzo mondo. Con le pannocchie ci fanno solo il popcorn da sgranocchiare al cinema perché quasi tutto viene trasformato in etanolo con cui fanno marciare i loro pick-up, in genere dotati di un fucile sistemato dietro al conducente (circa metà degli adulti ha una o più armi da fuoco in casa).
Tutto questo non avrebbe molta importanza se non fosse per il fatto che ogni quattro anni migliaia di giornalisti scendono come cavallette nello stato, al seguito di candidati la cui unica preoccupazione è mostrarsi affabili con i paesani, bere una birra in un diner, mangiare ali di pollo in salsa, condividere cheeseburger con molto ketchup, dare e ricevere pacche sulle spalle nei mercati e tenere riunioni al chiuso dove si parla dei sussidi governativi all’agricoltura e di nient’altro.
Il problema nasce quando i concorrenti si fanno incastrare in una formula di dibattito con i cittadini chiamata town hall dove teoricamente chiunque ha il diritto di partecipare e di porre domande. In realtà lo staff dei candidati esercita un’occhiuta sorveglianza per impedire che qualche infiltrato del partito opposto faccia domande imbarazzanti.
Nonostante questo, pochi giorni fa Nikki Haley, un’ex ambasciatrice all’ONU nell’amministrazione Trump, alla domanda “Qual è stata la causa della Guerra di secessione?” ha balbettato qualcosa tipo “Le divergenze su come doveva essere gestito il governo, su cosa si poteva e non si poteva fare”. A pronunciare la parola “schiavitù” non c’è proprio riuscita malgrado abbia deglutito sette volte. Forse le è rimasto nel DNA il fatto di essere stata governatrice del South Carolina per due mandati: infatti nel dicembre 1860, ancora prima dell’insediamento di Abramo Lincoln alla presidenza, il South Carolina fu il primo stato a lasciare l’Unione, dando inizio alla guerra di Secessione.

 

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