Il peso delle parole

di Pat Carra e Marisa Guarneri
Illustrazione di Teresa Sdralevich

 

Pat

Grazie al femminismo, il tema della violenza maschile contro le donne è entrato da tempo nel discorso pubblico sulle guerre. Se nel pensiero femminista è nato come svelamento e denuncia della violenza in tutte le sue forme, dalla politica maschile e dai suoi apparati militari questo tema è stato prontamente riciclato come giustificazione delle guerre e come arma di propaganda. Partiamo dall’impero di cui facciamo parte, che scatena stragi a ruota libera giustificandole come difesa dei diritti delle donne.
Il 7 ottobre (!) 2001 gli Stati Uniti iniziano la guerra in Afghanistan “per liberare le donne dal burqa”. Una falsità strumentale più volte denunciata dalle femministe afghane di Rawa, mentre le bombe piovevano sui loro corpi. Vent’anni dopo gli USA e la Nato si ritirano, lasciando le donne in condizioni cento volte peggiori.
All’inizio di dicembre 2023 il primo ministro Netanyhau, mentre su Gaza piove l’inferno, chiede di condannare gli stupri di Hamas del 7 ottobre lanciando un amo: Dico alle organizzazioni per i diritti delle donne, alle organizzazioni per i diritti umani: Avete sentito parlare dello stupro delle donne israeliane, di atrocità orribili, di mutilazioni sessuali. Dove diavolo siete?
In Italia una risposta giunge il 3 gennaio con l’appello Non si può restare in silenzio promosso da cinque donne, pubblicato su Corriere della sera e altre testate mainstream, e firmato da oltre 12 mila persone in pochi giorni.

Marisa

Quello che mi meraviglia dell’appello Non si può restare in silenzio è il linguaggio. Mi fermerei a questo, perché il linguaggio è segno e sostanza. Tra le promotrici ci sono donne che hanno esperienza di sofferenza femminile e di sostegno, eppure usano un linguaggio che non mette le donne al centro e non si prende cura di loro. Sono molto meravigliata del fatto che abbiano accettato espressioni di tipo scandalistico.
Tutte le donne hanno diritto al rispetto. A tutte le donne violate è necessario il sostegno di altre donne, l’affettuoso aiuto per superare il trauma subìto e tornare a vivere. Quando del loro corpo si è fatto scempio, parlarne in modo scandalistico le riporta tragicamente nella stessa posizione in cui sono state uccise. Dentro la politica degli uomini, usate e offese.
L’appello ha raccolto migliaia di firme: presentare le cose senza approfondire facilita le adesioni. Anche chi non capisce niente di femminismo o di interventi a sostegno delle donne, lo firma tranquillamente, non ti si chiede nient’altro. Ma per essere dalla parte delle donne non basta firmare un appello superficiale, bisogna stare in campo.

Mi  colpisce che donne con esperienza possano esprimersi in questo modo e senza definire degli obiettivi, se non in termini guerreschi. Ma che vantaggio è per le donne?
Soprattutto mi meraviglia che non abbiano scritto una sola parola sul prevenire le violenze.
Sappiamo che l’unica prevenzione è smettere la guerra. Per fermare le violenze bisogna fermare la guerra. L’appello non chiede il cessate il fuoco, che è la base per difendere tutte, donne uomini bambini, è la precondizione per entrare nel merito delle diverse sofferenze. Il femminicidio di massa, di cui le promotrici chiedono il riconoscimento riguardo agli stupri di Hamas,  è già un fatto nel mondo, dove continuano a essere uccise una marea di donne, in ambito familiare come in guerra.
La violenza si è inserita in tutte le cose, viviamo respirando violenza. Se l’interesse è dare vantaggio alle donne, il cessate il fuoco è il minimo che oggi si può chiedere.

Per approfondire:
There Was No Cover-Up of Hamas’s Sexual Violence on October 7
di Judith Levine su The Intercept

Appello Non si può restare in silenzio
di autrici varie

Afghanistan: le donne che conosciamo
di Marisa Guarneri

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