Io e la natura | 6° puntata

Cronache di una cittadina trapiantata su un selvaggio bricco del cuneese

di Manù

 

Ho notato che i pochi villici che incontro sono tutti molto sensibili al discorso “razza” e ostili a ciò che viene “da fuori” (ma “fuori” di che?)
– Uno scoiattolo, che bello! –
– Quelli lì non son dei nostri, arrivano da fuori, han fatto perdere la razza, mangiano tutto! –
– Chissà se andrà bene la produzione di miele, quest’anno…-
– Ci son delle api che non son delle nostre, fan perdere la razza, mangiano tutto! –
La cosa bizzarra è che il rincrescimento per la perdita della razza viene esteso anche a animali considerati da sterminare.
– Piove, ci sono un sacco di lumache –
– Quelle lì non son delle nostre, fan perdere la razza, sono impestate, mangiano tutto! –
Quando si parla di lumache non si intendono le simpatiche chioccioline ma quelle senza guscio.
Si deve essere sparsa la voce che il mio orto è un territorio senza frontiere in quanto la varietà di lumache che vi si raduna è internazionale.
Oltre a quelle rosse, enormi ed eleganti, arrivate tanti anni fa con una partita di legname dal Canada e responsabili di aver fatto perdere la razza, ho potuto osservare lumaconi neri lunghi come la mia mano, lumache grigie di medie dimensioni e non ultime minuscole lumachine grigie e nere il cui appetito, a giudicare dallo stato della mia insalata, non ha nulla da invidiare a quello delle canadesi. Mangiano tutto.
Quel che è certo che qualunque cosa arrivi da fuori è dannoso, infestante.
Vale per le cimici, alcune varietà di mosche, formiche e anche piante, quest’ultime non mangiano tutto ma fan perdere comunque la razza.
Fanno eccezione i cinghiali che, salvi da contaminazioni estere, sembrano essere stati incrociati a suo tempo con i nostri maiali domestici, diventando così più grossi e più prolifici.
Danni ne fanno, mangiano tutto, ma motivano l’attività venatoria, quindi va bene così.

 

Se Cartesio scriveva “penso dunque sono”, io sono giunta alla conclusione “esisto dunque inquino”.
Non c’è soluzione o almeno io non la vedo
Sono sempre stata piuttosto attenta alle questioni ambientali.
Quando vivevo in città in 37 metri quadri al quarto senza ascensore, sopra un mercato, non mi sono mai astenuta dal differenziare i rifiuti. Precisa e rigorosa, quando andavo a buttarli per raggiungere gli appositi bidoni dovevo letteralmente scavalcare una montagna di rifiuti molto indifferenziati: quarti di pollo, cartoni, vetri, imballi di plastica… nella campana del vetro e negli altri raccoglitori si sentiva l’eco, tanto erano assolutamente vuoti, quasi fossero stati messi lì solo per me.
Indecisa sul sentirmi un’eroina o una deficiente, ho optato per un’eroina deficiente.
Qui in mezzo ai boschi, lontana dall’asfalto, dalle auto, dai condizionatori e dalle vetrine illuminate a giorno, non posso fare a meno di sentirmi un elemento di disturbo.
La raccolta non basta, alla caccia con arco e frecce non sono portata, quindi mi tocca di fare la spesa.
E la spesa produce rifiuti che in questo contesto sembrano un’enormità.
I detersivi per quanto biodegradabili fanno schiuma e la schiuma prima o poi te la ritrovi .
E poi bisogna scaldarsi.
La legna è un delirio. Vedo il mio vicino consumare un bosco di medie dimensioni all’anno e la combustione dicono che inquini molto.
Io ho il pellet che sembra andare meglio, ma viene trattato con una serie di sostanze che a giudicare dall’odore proveniente dal camino tanto naturali non sono,
E poi mica posso tagliare il prato con la falce.
Allora via col decespugliatore che va a miscela e fa un rumore infernale.
E l’olio esausto dove lo metto?
Inquino di più facendo 30 km in macchina per portarlo alla prima isola ecologica o, visto il quantitativo minimo che ne produco, versandolo nel terreno in un punto dove se diserbo non fa male?
Poi ci sono i tre ripetitori enormi che deturpano uno dei prati più belli del colle e spalmano onde elettromagnetiche per chilometri ma mi permettono di usare un cellulare, mandare una mail, leggere un articolo senza fare 14 chilometri per comprare un giornale.
Mi dico che tutto ciò è inevitabile e penso di arginare i danni limitandomi al necessario, solo che non so più cosa sia davvero necessario, mi faccio piccola e penso “non è colpa mia” e poi mi vengono in mente tutti quelli che pensano “non è colpa mia” e allora di chi cavolo è la colpa?

Un topolino mi guarda dal lavello, una colonna di formiche si inerpica indaffarata su per il trave, un capriolo chiama il suo compagno nel bosco, le erbacce mi fan compagnia quando salgo la scala esterna.
Tiro un sospiro di sollievo.
Per ora, qui, i più forti sono ancora loro.

 

Foto di Manù e Andrea Ferrante

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