Confindustria va alla carica

Intervista a Matteo Gaddi

di Pat Carra

 

Nell’intervista a Erbacce del 10 aprile, Matteo Gaddi e Nadia Garbellini, ricercatori della Fondazione Sabattini (Fiom-Cgil) ci hanno raccontato fatti e misfatti del nord industriale all’inizio dell’emergenza Covid. Ora, ai primi passi della Fase 2, torniamo da Matteo per un commento sulla situazione delle fabbriche, in particolare quelle del nord dove è più forte il mantra del primato dell’economia sulla vita.

Dal 4 maggio riaprono il settore manifatturiero e delle costruzioni, e il commercio all’ingrosso. Tutte le aziende devono rispettare i protocolli di sicurezza sui luoghi di lavoro. Sono pronte?

Ho i miei dubbi che le imprese siano tutte pronte a rispettare il Protocollo di sicurezza sottoscritto in marzo dalle parti sociali e ribadito dal Decreto del 26 aprile. Dove è necessario le aziende devono definire, con la partecipazione dei delegati sindacali, anche protocolli specifici che rispondano alle particolarità dei vari luoghi di lavoro. Se non si applicano queste misure di tutela della salute e della sicurezza di lavoratrici e lavoratori non ci sono le condizioni per lavorare, questo deve essere chiaro.
Alcune imprese non hanno mai smesso di produrre e non so quante di loro abbiano realmente fatto gli interventi per sanificare e riorganizzare i processi produttivi. Altre hanno definito dei protocolli in maniera unilaterale, senza coinvolgere i delegati sindacali. E poi ci sono quelle non sindacalizzate, da cui facciamo una fatica enorme a ricevere notizie.

Che aria circola nelle fabbriche del nord davanti alla Fase 2? Come stanno gli operai e le operaie?

Circola molta preoccupazione. L’attuale organizzazione del lavoro è incompatibile con le misure del Protocollo di sicurezza. Mi spiego meglio: per dare la possibilità agli operai e alle operaie di gestire i dispositivi di protezione individuale, rispettare le distanze minime e lavorare in sicurezza, vanno rivisti i pilastri dell’organizzazione del lavoro. Andranno allargati i tempi ciclo, tenendo conto del maggiore affaticamento; inserite nuove pause; abbassati i ritmi e l’intensità del lavoro. Questo significa ridurre i volumi di produzione, a meno che le imprese non facciano qualche assunzione per aumentare gli organici. Dovranno rinunciare a una parte di profitti, ma con gli utili che hanno accumulato negli ultimi anni si tratta di un piccolo “sacrificio” che potranno ben sopportare.

Davanti alle preoccupazioni per la vita e la salute, il neoletto presidente di Confindustria Carlo Bonomi, denuncia il ritorno di un sentimento anti industriale. Come rispondono i sindacati?

Le imprese sono bravissime a lamentarsi per ottenere più benefici possibili. Le richieste di Confindustria al governo su autocertificazioni, aperture, deroghe sono state praticamente tutte accolte. Le richieste sulla liquidità, pure. Oppure pensiamo a due provvedimenti minori, ma significativi. Il Decreto Cura Italia concede alle imprese un credito di imposta pari al 50% delle spese sostenute per le sanificazioni, fino a un massimo di 20.000 euro, e un fondo di contributi per l’acquisto di mascherine, guanti etc. La cifra complessiva, 100 milioni di euro, è limitata, ma quello che preoccupa è il principio. Sanificazioni e dispositivi di protezione dovrebbero essere pagati dalle imprese! È un loro dovere adottare le misure necessarie “a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”, recita il nostro Codice Civile. Le imprese in questi anni hanno goduto di finanziamenti pubblici e sgravi fiscali, continuando liberamente a licenziare e delocalizzare. Dove lo vede Bonomi un sentimento anti industriale?

Confindustria continua a fare pressioni per evitare chiusure e accelerare riaperture. Nei fatti quanto è forte la minaccia?

La minaccia si farà ancora più forte nei prossimi mesi. Bonomi, in diretta Rai, ha attaccato il Contratto Nazionale di Lavoro. Se saltasse anche questo argine verrebbe meno lo strumento che per eccellenza definisce un quadro unitario di diritti per tutti i lavoratori di un determinato settore. Cosa accadrebbe? Si farebbero soltanto contratti aziendali, con diversi livelli salariali e di diritti. Un vero dumping sociale, per scatenare una corsa al ribasso delle condizioni dei lavoratori e delle lavoratrici.

Bonomi incita a pensare alla Fase 3 e al futuro degli investimenti, “senza guardare nello specchietto retrovisore”.

L’incitamento chi riguarda? Non certo le imprese, che in questi anni hanno drasticamente ridotto i loro investimenti, e quei pochi che hanno realizzato se li sono fatti pagare dalle risorse pubbliche, vedi gli incentivi fiscali del Piano Industria 4.0.

Quale via d’uscita auspichi per la Fase 3?

Soltanto il settore pubblico potrebbe realizzare gli investimenti di cui c’è bisogno, e qui è chiamata in causa la necessità dell’intervento statale in economia. Significa che vogliamo una nuova IRI? Si, vogliamo una nuova IRI*.

“Poi Bonomi si fa eleggere presidente anche di quella, il problema sono gli uomini”, chiosa un amico di Matteo e di Erbacce.

*Istituto per la Ricostruzione Industriale, ente pubblico che ha coordinato dal 1933 al 2000 lo sviluppo economico e industriale del Paese.

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