Banalità

di Robin Morgan
Traduzione di Margherita Giacobino
Illustrazioni di Liza Donnelly

 

Chauvin in manette!

In questo paese, ogni volta che viene commessa un’atrocità, si pronunciano i soliti cliché. Pensieri e preghiere. Simpatie e condoglianze. Elaborazione, trauma, guarigione, superamento.
Parole di plastica per descrivere sentimenti di polistirolo. Senza significato, senza contenuto. Contaminano i nostri oceani, inquinano le nostre conversazioni, congestionano i nostri polmoni. Non sono nemmeno urla e furore – ma comunque non significano nulla.
Mormoriamo meccanicamente questi luoghi comuni quando c’è un’altra sparatoria in una scuola o un massacro in un supermercato, quando un altro cittadino nero viene ucciso da un altro poliziotto bianco, quando il corpo di un’altra donna viene trovato da qualche parte in qualche bagno o cucina o canale di scolo. Pensieri e preghiere. Sembrava così tranquillo. Non l’avrei mai immaginato. Trauma. Guarigione. Superamento.
Dicono che la sentenza della settimana scorsa è stata diversa. Sì e no.
Lo è stata, perché ha messo in luce fin nei minimi dettagli le intollerabili ingiustizie dei nostri sistemi di polizia e giudiziari. Lo è stata perché ha confortato una famiglia, anche se ha perso un suo membro per sempre, per sempre. Lo è stata perché ha cominciato a erodere, seppure di poco, il cosiddetto muro blu del silenzio della polizia e della connivenza ufficiale. Lo è stata anche perché ha rafforzato il gesto di Kelly May Xiong, ex moglie di Chauvin, una donna laotiana hmong che ha divorziato da lui nel maggio 2020 dopo l’omicidio: mio Dio, come sarà stato lui in casa?
Gli americani bianchi – gente impaziente – sono ansiosi che tutto questo finisca, che le cose tornino a essere “normali”, che la gente smetta di lamentarsi, per carità. Anche i giovani idealisti, quelli che marciano pacificamente, ma con i pugni in aria, anche loro sono impazienti, sono pronti a vincere, pronti all’euforia. Ma guardate meglio le facce più vecchie, le facce più scure, guardate negli occhi, ascoltate quelli che dicono con calma che forse la sentenza è stato un inizio. Che certamente sembrava un buon segno. Forse poteva significare un cambiamento. Ma in che modo? come dopo la guerra civile? come dopo la Ricostruzione? o come quando furono emanate le leggi Jim Crow che stabilivano di fatto la segregazione? o come prima che i “codici neri” trasformassero la parola “cambiamento” in una battuta cinica? Un’altra piccola finestra, un’altra fragile speranza. Riassunta, forse, in una parola: Vedremo.

 

Solo il tempo ci dirà se questa sentenza è diversa. Solo il tempo ci dirà se sarà tradotta in azione, in legislazione, in pratica applicata, e forse alla fine, cosa quasi inimmaginabile, in procedura regolare. Il razzismo scorre così in profondità in questo paese da affiancare il sessismo; è un fiume sotterraneo, come lo Stige. Satura il terreno; impregna l’anima.

Questi momenti mi rimandano – per prospettiva, autodisciplina, saggezza – alla voce di Toni Morrison. In questo caso, in particolare, al suo libro Giochi al buio. Il bianco e il nero nella letteratura americana, tre saggi che costituivano la base di un corso di letteratura americana da lei tenuto ad Harvard. Ecco, per esempio, alcuni di questi pensieri stimolanti, impegnativi e brillanti.

La giovane America si distingueva, e vedeva se stessa, come fortemente spinta verso un futuro di libertà, un tipo di dignità umana che si riteneva senza precedenti nel mondo… Ma sapere da cosa queste persone stavano fuggendo è altrettanto importante quanto sapere verso cosa stavano correndo… Il vecchio mondo non offriva loro che povertà, prigione, ostracismo sociale e, non di rado, la morte. C’era naturalmente un gruppo di immigrati funzionari e studiosi che venivano a cercare l’avventura nel fondare una colonia per, anziché contro, la madrepatria. E naturalmente c’erano i mercanti, che venivano per i soldi…
Qualunque fossero le ragioni, ad attrarli era la “tabula rasa”. Il nuovo ambiente avrebbe fornito al sé nuovi abiti… L’abitudine alla genuflessione sarebbe stata sostituita dal brivido del comando. Il potere – il controllo del proprio destino – avrebbe sostituito l’impotenza provata davanti ai cancelli della classe, della casta e dell’insidiosa persecuzione. Dall’obbedire ed essere puniti si sarebbe passati al far subire e punire; dall’ostracismo sociale al rango sociale… c’era molto da scrivere: i nobili impulsi vennero trasformati in legge e incorporati nelle tradizioni nazionali; quelli bassi, appresi ed elaborati nella patria rifiutata e respinta, furono anch’essi trasformati in legge e incorporati nella tradizione.
Il corpus letterario prodotto da una giovane nazione è uno dei modi in cui essa inscrive le sue transazioni con queste paure, forze e speranze. Per un popolo che vantava la sua”novità”, è sorprendente quanto la nostra letteratura iniziale e fondativa sia cupa, inquieta, tormentata e ossessionata. Abbiamo parole ed etichette per questa ossessione, la chiamiamo gotica, romantica, sermoneggiante, puritana… Cosa c’era nel romanticismo americano che lo rendeva così attraente come campo di battaglia su cui combattere, affrontare e immaginare i propri demoni?
L’oscurità, con tutto il valore connotativo che risvegliava. Non c’è trama romanzesca esente da quello che Herman Melville chiamava “il potere della nerezza”, soprattutto non in un paese in cui c’era una popolazione residente, già nera, su cui si poteva giocare d’immaginazione. Come ha notato il sociologo Orlando Patterson, non dovremmo essere sorpresi che l’Illuminismo abbia potuto accogliere la schiavitù; dovremmo sorprenderci se non lo avesse fatto. Niente poteva mettere in evidenza la libertà – per non dire crearla – come la schiavitù… [ecco quindi] un ritratto succinto del processo attraverso il quale si è costituito l’americano in quanto nuovo, bianco e maschio. Il luogo della sua trasformazione è all’interno del mondo selvaggio: sul suo sfondo c’è la barbarie.
Come si sarebbe potuto parlare di profitto, economia, lavoro, progresso, suffragismo, cristianesimo, frontiera, formazione di nuovi stati, acquisizione di nuove terre, educazione, trasporti, quartieri, esercito – quasi tutto ciò di cui un paese si occupa – senza avere come referente, al centro del discorso, al centro della definizione, la presenza degli africani e dei loro discendenti? Non era possibile. E non è successo. Quello che si è fatto spesso, invece, è stato sforzarsi di parlare di queste cose con un vocabolario fatto apposta per mascherare l’argomento… Un parallelo istruttivo di questa indifferenza accademica è la cecità isterica e secolare al discorso femminista e il modo in cui le donne e le questioni femminili sono state lette (o non lette).
L’africanismo è il veicolo attraverso il quale l’io americano conosce se stesso non come schiavo, ma libero; non ripugnante, ma desiderabile; non impotente, ma autorizzato e potente; non senza storia, ma storico; non dannato, ma innocente; non un cieco incidente dell’evoluzione, ma un progressivo compimento del destino.[neretto mio]

È una sorpresa, allora, che questa proiezione identitaria, così profondamente radicata nel temperamento culturale e nazionale, sia così difficile da sradicare?
Ma non impossibile. Continuiamo a ripeterlo.
Non impossibile. Non impossibile. Non impossibile.

*L’articolo è stato pubblicato il 26 aprile 2021 sul blog di Robin Morgan

 

 

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