Un anno, ed è subito sera

di Ida Dominijanni
Illustrazione di Doriano Solinas

Le tre guerre d’Ucraina, sovrastate dalla lotta per il riconoscimento di Putin e Zelensky, rischiano di trasformarsi in un regime bellico globale che dovrà decidere a chi spetta lo scettro dell’egemonia nel XXI secolo. Intanto l’Unione europea ne fa le spese e le democrazie si militarizzano

Solo Vladimir Putin poteva pensare, se davvero come sembra l’ha pensato, che l’invasione dell’Ucraina sarebbe stata una passeggiata di qualche settimana. Noi comuni mortali, privi della sua hybris nonché dei suoi servizi di spionaggio farlocchi, quella mattina di un anno fa abbiamo avuto subito chiara una e una sola cosa: che quella lunga fila di carri armati in marcia verso Kiev era un evento di portata enorme; che era arrivato il momento della resa dei conti della storia ricominciata (e non finita, come allora si sostenne), con il 1989; che la guerra stava tornando “nel cuore dell’Europa” per restarci molto a lungo; e che la situazione in cui stavamo precipitando era senza via d’uscita da qualunque punto di vista la si guardasse.Un anno dopo la situazione rimane bloccata, ma sul terreno giacciono – si stima, per difetto – 300.000 morti, che gridano e grideranno vendetta nei decenni a venire, aggiungendosi alla folla di spettri che ci guardano dal passato della interminabile guerra civile europea dalla quale ci eravamo illusi di essere usciti una volta per tutte nel 1945. E sì, ha ragione Jürgen Habermas quando, scandagliando il “paradigma morale” con cui viene giustificato l’invio delle armi all’Ucraina, ci ricorda che noi europei saremmo tenuti a considerare un imperativo morale non solo punire l’aggressore e solidarizzare con l’aggredito, ma anche rispondere di quei morti dell’una e dell’altra parte. Un anno, e anche molto meno di un anno, è servito a capire che in Ucraina non si sta combattendo una guerra bensì almeno tre, una dentro l’altra come in una matrioska. C’è la guerra di aggressione della Russia all’Ucraina e di indipendenza dell’Ucraina dalla Russia, c’è la guerra preventiva di Putin contro la NATO e la guerra per procura della NATO contro Putin, c’è la guerra – dichiarata da Putin, sottaciuta dagli USA e dalla Cina – sugli assetti futuri dell’ordine mondiale. Nessuna di queste tre guerre ha una posta in gioco esplicita e definita – il che rende l’impostazione di un negoziato molto ardua, al di là dell’insipienza dei potenti della Terra – perché tutte e tre sono sovrastate dalla lotta per il riconoscimento di Putin e Zelensky: l’uno vuole che la Russia torni a essere riconosciuta come grande potenza, l’altro vuole che l’Ucraina sia riconosciuta come nazione occidentale a pieno titolo. E non c’è bisogno di scomodare Hegel per sapere che le lotte per il riconoscimento possono essere infinite e diventare spietate. Guerra “esistenziale” si dice infatti ora, per l’uno e l’altro contendente: e sull’esistenza non si negozia.La prima guerra dunque è impantanata in un crescendo di devastazione sul lato russo, di armamenti sul lato ucraino. La terza, quella che ha per posta in gioco la ridefinizione dell’ordine mondiale, è appena agli inizi, si combatte per ora soprattutto sul piano economico ma può prevedere altre guerre locali, o trasformarsi in un lungo “regime di guerra” che deciderà a chi spetta lo scettro dell’egemonia nel XXI secolo: ci saranno sorprese, visto che due terzi di mondo si rifiutano di allinearsi alla versione dei fatti atlantista e stanno cogliendo l’occasione della guerra in Ucraina per presentare all’Occidente il conto di due secoli di colonialismo.La seconda guerra, in compenso, sta già dando i suoi frutti: se l’Europa è il suo teatro, l’Unione europea è la sua posta in gioco. E sul fronte ucraino l’Unione non si è compattata, come predicano ogni giorno i media mainstream: si è deformata, con un evidente spostamento di peso politico dall’asse Germania-Francia-Italia a quello Polonia-Paesi baltici, sotto l’ala protettrice degli Stati Uniti, che incassano l’indebolimento della Germania, e del Regno Unito, che riconquista manu militari il peso perduto con la Brexit. Il nuovo asse è composto da governi che brillano più per ardore nazionalista che per qualità democratica, è ferocemente antirusso ed è accomunato da politiche di regime della storia e della memoria che per seppellire il totalitarismo comunista chiudono più di un occhio sul totalitarismo nazista. Per l’Unione e per i suoi valori fondativi è una disfatta, che spalanca le porte a quella “Europa delle nazioni” che in casa nostra viene predicata da Giorgia Meloni e che a Strasburgo e Bruxelles si concretizzerà quanto prima in una maggioranza conservatrice. Ma di tutto questo in Italia si parla poco o niente, perché il verbo transatlantico comanda di identificare la causa ucraina con la causa democratica, e tanto basta a sospendere le chiacchiere sui colori, nero compreso, che le democrazie possono prendere.Sempre in Italia, ma non solo in Italia, un anno e molto meno è bastato per sperimentare un tasso di militarizzazione del dibattito pubblico mai sperimentato prima, nemmeno ai tempi delle guerre contro il terrorismo internazionale. Chi non è allineato alla narrativa mainstream è un traditore dell’Occidente, chi si oppone all’escalation delle armi è un disertore, chi solleva mezzo interrogativo è un ventriloquo di Putin. Del resto, in Germania uno come Habermas, che storicamente è tutt’altro che un pacifista ma oggi osa stilare un appello per un negoziato, viene liquidato come un vecchio signore ingenuo che ha fatto il suo tempo. Questo è lo stato delle democrazie che stiamo armando fino ai denti per sconfiggere gli autocrati. Un anno è bastato perché, per dirla in poesia, si facesse subito sera.

 

*L’articolo è stato pubblicato iil 24 febbraio 2023 sul sito di Centro per la Riforma dello Stato

 

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