Tutto comincia dalla Nakba

di Rima Hassan
Video di PDH Paroles D’Honneur
Traduzione di Margherita Giacobino

La Nakba è ricordata dal popolo palestinese ogni anno il 15 maggio, un giorno dopo la fondazione dello stato di Israele, avvenuta il 14 maggio 1948.


Faire Bloc, organizzazioni ebraiche anticoloniali di diversi paesi, insieme a associazioni e attivisti, si sono riunite a Parigi in marzo 2024 nella sede di Paroles D’Honneur, per riaffermare la legittimità della causa palestinese. Pubblichiamo l’intervento di Rima Hassan, giurista franco-palestinese, fondatrice dell’Osservatorio dei campi dei rifugiati, candidata di France Insoumise alle europee 2024. Nel video, la versione integrale in francese e inglese. (NdR)

La Nakba è il punto di partenza dello spossessamento dei palestinesi

Comincio col dire da dove parlo: io sono una discendente della Nakba. La mia famiglia è stata cacciata dal territorio che oggi appartiene a Israele e mandata nei campi di rifugiati in Siria. Io sono nata in uno di questi campi.
Quindi dico con molta emozione che vorrei che i miei nonni prima di morire avessero visto ciò che sta avvenendo qui oggi. Mando un pensiero a loro e alle persone che si trovano ancora nei campi e che possono trarre una speranza da ciò che si fa qui, e vi ringrazio.
Edouard Saïd ha detto che la Shoa è stata la catastrofe dell’Europa e la Nakba è stata la catastrofe del mondo arabo.
Nel primo caso di tratta di sterminio, nel secondo di cancellazione.
Per me la Nakba è il solo quadro efficace per affrontare la questione palestinese, perché la Nakba è una meccanica di sparizione, di cancellazione del soggetto palestinese, che si materializza in modi diversi, oggi con l’occupazione, la colonizzazione, l’apartheid e il genocidio.
Il termine Nakba, che significa catastrofe, è stato usato per la prima volta da Constantin Zureiq, un intellettuale siriano, che l’ha definita la madre di tutte le catastrofi, soprattutto riguardo al nazionalismo arabo.
Elias Khoury, un intellettuale libanese, nel 2011 ha cominciato a fare sulla Nakba un lavoro teorico che continua ancora oggi. Si tratta di intendere la Nakba non come un evento storico datato e ormai passato, ma come un concetto basilare per la narrativa palestinese in tutte le sue dimensioni, il punto di partenza di questa cancellazione che oggi si materializza nelle sue diverse realtà, perché i palestinesi si trovano in diversi territori e vivono con statuti diversi.
Io sono nata arrabbiata, perché mi sono trovata prestissimo di fronte alla dimenticanza, che è l’inizio della cancellazione.
Quando sono arrivata in Francia ho dovuto sistematicamente fare un lavoro di educazione per sopravvivere in quanto rifugiata palestinese. Ho dovuto commemorare la Nakba quotidianamente. Quando si è rifugiati palestinesi, spossessati della propria terra e identità, non si aspetta il mese di maggio per commemorare la Nakba, lo si fa tutti i giorni.
Quando noi lasciamo i campi, perdendo anche questo legame, cominciamo quasi a scomparire anche noi.
Il campo rappresenta la cancellazione perché materializza l’espulsione dei palestinesi dalla loro terra, ma allo stesso tempo è anche lo spazio di sopravvivenza. Un luogo di memoria, a cui i palestinesi sono legati. Perché, in mancanza del legame con la propria terra, ci sono cose che si vanno perdendo da una generazione all’altra.
Che cos’è la Nakba? L’espulsione, al momento della  creazione dello stato di Israele, di 800.000 palestinesi dalle loro  terre. Più di metà dell’intero popolo di 1.400.000 persone. Tra cui la mia famiglia. Ma non solo: la distruzione di 532 villaggi, completamente rasi al suolo. Quindi per i palestinesi spossessati alla sofferenza dell’esilio si aggiunge la perdita dei luoghi della memoria, del passato e delle usanze.
Si parla spesso della Palestina e dei palestinesi come di un popolo che ha un’identità nazionale unitaria. Ma i palestinesi hanno anche delle identità regionali, che vanno perdute. Per me è una cosa molto dolorosa, che fa parte della cancellazione.
Pensiamo al ricamo tatriz, che era una specie di carta d’identità delle donne palestinesi, in cui i disegni, i colori, i tipi di ricamo, indicavano da che località venivano le donne, quanti figli avevano, qual era la loro identità regionale.
Lo stesso avviene per gli accenti.
Questi elementi sono andati perduti con la Nakba. E tutto ciò ha una stretta relazione con quello che accade oggi a Gaza.
La popolazione di Gaza non ha un’identità unica, ma è composta all’85% da rifugiati, provenienti da diverse regioni. È per questo che il ruolo dell’UNRWA, l’agenzia delle Nazioni Unite che assiste i palestinesi, è importante.
I media occidentali e quelli del mondo arabo hanno usato termini diversi per quel che è successo il 7 ottobre: Hamas ha parlato di territori ‘liberati’, parola che in Occidente è stata completamente occultata. E questo significa che i combattenti di Hamas sono figli della Nakba.
Finché non avremo tutti collettivamente trovato una soluzione e dato delle risposte ai figli della Nakba, ovunque si trovino, resteremo all’interno di questa cancellazione e del conflitto che oggi si vive a Gaza.
Quasi nessuno ha analizzato i fatti in questa dimensione storica, e io credo che si tratti di un errore gravissimo.
Oggi si parla di quello che accade a Gaza, ma la situazione è la stessa in Cisgiordania, dove ci sono 19 campi e milioni di palestinesi costretti all’esilio.
E il punto di partenza di tutto è la Nakba. È per questo che si parla di “Nakba continua”.

Per approfondire:
Nakba. La catastrofe palestinese (film di Monica Maurer)
Incontro con Judith Butler  (di Laura Marzi e Paroles D’Honneur)

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