Terra nullius

Com’è nato il colonialismo

di Robin Morgan
Illustrazione di Federico Zenoni
Traduzione di Margherita Giacobino

 

Illustrazione basata sulla Carta di Peters*

Si stima che ci siano 476 milioni di persone indigene sparse in 70 Paesi del mondo.
L’impresa di riconoscere i loro diritti da parte dell’ONU è iniziata intorno al 1914 (già come idea vecchia), ed è stata portata a termine nel 2007. Gli Stati Uniti non ci sono ancora arrivati. Alcuni Stati degli USA hanno istituito una giornata dedicata, di solito il 12 ottobre, ma è complicato perché è anche il Columbus Day e gli italoamericani sono seccati all’idea di perdere la loro festività. Ogni anno un nuovo Stato si muove. Il South Dakota è stato il primo, nel 1990, sostituire ufficialmente il Columbus Day con la festa dei nativi americani; nel 1992, nel 500° anniversario dell’arrivo di Colombo nelle Americhe, Berkeley, in California, è stata la prima città a osservare ufficialmente la Giornata dei Popoli Indigeni. Le Hawaii hanno intelligentemente cambiato il nome della festa in Giornata degli Scopritori, in onore dei navigatori polinesiani che originariamente popolarono le isole. Sempre più governi statali e locali riconoscono questa ricorrenza in qualche forma, il loro elenco si può trovare online.

I popoli indigeni in Canada comprendono le Prime Nazioni, gli Inuit e i Metis. Definizioni come “indiano” ed “eschimese” sono cadute in disuso in Canada e negli Stati Uniti, e il termine “aborigeni” è stato sostituito da indigeni. Gli Inuit hanno raggiunto un certo grado di autonomia amministrativa nel 1999, con la creazione dei territori di Nunavik nel nord del Quebec, Nunatsiavut nel nord del Labrador e Nunavut, che in precedenza faceva parte dei Territori del Nord-Ovest. Negli Stati Uniti, le popolazioni di nativi americani, inuit e altre denominazioni indigene ammontano a 2.786.652 persone, pari a circa l’1,5% dei dati del censimento del 2003. Circa 563 Nazioni o Tribù sono riconosciute a livello federale e molte altre a livello statale.

Nel mondo, la popolazione indigena è enorme.

Nella maggior parte dell’Oceania i nativi superano i discendenti dei coloni. Fanno eccezione Australia, Nuova Zelanda e Hawaii; in Aotearola-Nuova Zelanda nel 2021 la popolazione Māori nel 2021 era stimata pari al 17% del totale.
Tra i numerosi popoli indigeni dell’Africa vi sono i cacciatori-raccoglitori delle foreste (“pigmei”) dell’Africa centrale, i pastori nomadi come i Masai e i Samburu dell’Africa orientale, i San dell’Africa meridionale e gli Amazigh (berberi) dell’Africa settentrionale e del Sahel. I San, il popolo indigeno del deserto del Kalahari in Botswana, hanno ottenuto un’importante vittoria nel dicembre 2006, quando l’Alta Corte ha stabilito che lo Stato li aveva ingiustamente sfrattati da una riserva quattro anni prima e che potevano tornare a casa: un precedente storico per i diritti dei popoli indigeni ovunque, soprattutto in Africa, dove molti governi africani sono riluttanti a riconoscere il concetto di diritti indigeni. Recentemente, il Burundi ha emendato la propria costituzione per garantire una rappresentanza nell’assemblea nazionale al popolo indigeno Twa, che vive in diversi Paesi della regione dei Grandi Laghi in Africa. Nel vicino Ruanda, il governo sta collaborando con la principale organizzazione Twa per indagare sui crimini di guerra perpetrati contro di loro durante il genocidio del 1994, in cui si stima sia stato ucciso un terzo di tutti i Twa del Paese.
In alcuni Paesi (in particolare in America Latina), le popolazioni indigene costituiscono una componente consistente della popolazione nazionale complessiva: in Bolivia, si stima che rappresentino il 56-70% della nazione totale, e almeno la metà della popolazione in Guatemala e nelle nazioni andine e amazzoniche del Perù. In Brasile gli indigeni sono lo 0,4% della popolazione, ovvero circa 700.000 persone, e sono presenti in tutto il territorio, anche se la maggior parte vive in riserve nel nord e nel centro-ovest del Paese. Nel 2007, la Fondazione Nazionale Indiana (FUNAI) ha confermato la presenza di 67 diversi popoli mai contattati in Brasile, rispetto ai 40 del 2005. Il Brasile ha così superato l’isola di Nuova Guinea ed è il Paese con il maggior numero di popoli che non hanno contatto con la civiltà globalizzata. Ma è l’Asia a ospitare la maggior parte delle popolazioni indigene attuali, circa il 70%, secondo i dati dell’International Work Group for Indigenous Affairs (IWGIA). Le Filippine hanno una delle popolazioni indigene più numerose al mondo, 135 gruppi etno-linguistici, tra cui gli Igorot, nella Regione amministrativa della Cordigliera e della Valle del Cagayan, i Lumad e i Moro a Mindanao e nell’arcipelago di Sulu.
Non che questo venga sempre affrontato in modo intelligente: i vietnamiti consideravano gli indigeni Montagnard degli altopiani centrali del Vietnam dei “selvaggi”, il che causò una rivolta dei Montagnard contro i vietnamiti. Il governo del Bangladesh ha scelto di fare lo struzzo, affermando che “non ci sono popolazioni indigene in Bangladesh”, il che, non a caso, ha fatto arrabbiare le popolazioni indigene dei Chittagong Hill Tracts, note collettivamente come Jumma. Gli Hmong della Cina, i Karen, i Burman e gli Arakan del Myanmar hanno talvolta inscenato rivolte contro il governo. E così via. A quanto pare, l’umanità troverà sempre qualche gruppo come bersaglio del bigottismo.

Buona parte della responsabilità del colonialismo e dello sfruttamento subiti per secoli dalle popolazioni indigene è da attribuirsi alla Dottrina della Scoperta, nata nel XV secolo.

Si tratta di un concetto di diritto pubblico internazionale promulgato dal papato e dalle monarchie cristiane europee per legittimare la colonizzazione e l’evangelizzazione delle terre extraeuropee. Tra la metà del XV e quella del XX secolo, questa idea ha permesso alle entità europee di impadronirsi di terre abitate da popolazioni indigene con il pretesto di “scoprire nuove terre”, cioè terre non abitate da cristiani. Terra nullius, ovvero “terra di nessuno”, vuota, non abitata: questa era la giustificazione con cui gli europei di rivendicavano per sé quei territori, nonostante i molti gruppi indigeni che vi erano presenti. (Questa stessa giustificazione è stata usata da Israele – “una terra senza popolo per un popolo senza terra” – anche se naturalmente c’erano palestinesi che vivevano su quella terra da secoli). Una serie di bolle papali ribadì il concetto che permetteva la confisca totale delle “proprietà e dei diritti sovrani dei pagani”, o quantomeno che le conquiste potevano avvenire “legalmente” se i non cristiani si rifiutavano di convertirsi.
Così il Portogallo ottenne dal Papato il permesso di espandersi in Africa, la Spagna fu esortata ad attraversare l’Atlantico per conquistare e convertire le popolazioni indigene del nuovo mondo, e gli inizi del colonialismo europeo furono effettivamente formalizzati nel diritto internazionale, “proteggendo” qualsiasi terra scoperta o precedentemente posseduta da un proprietario cristiano. L’Ingiunzione spagnola del 1513 sottolineò che era un “diritto divino il prendere possesso dei territori del Nuovo Mondo e soggiogare, sfruttare e, quando necessario, combattere gli abitanti nativi”, se non addirittura annientarli. Il documento doveva essere letto alle popolazioni indigene così che, in teoria, potessero accettare o rifiutare la proposta, e se rifiutavano la guerra contro di loro era giustificata. (Pare che molti conquistadores temessero che, potendo scegliere, le popolazioni indigene avrebbero semplicemente accettato il cristianesimo, il che non avrebbe permesso l’invasione delle loro terre e il furto dei loro averi, quindi spesso gli invasori spagnoli davano lettura del documento di notte, in luoghi deserti.)

Nel 1493 l’Inghilterra e la Francia reinterpretarono la Dottrina della Scoperta a uso dei propri interessi coloniali. 

La nuova teoria sosteneva che Enrico VIII d’Inghilterra non avrebbe violato le bolle papali del 1493 che avevano diviso il mondo tra spagnoli e portoghesi, stabilendo di fatto un precedente per le nazioni coloniali europee secondo cui la prima nazione cristiana ad occupare una terra ne era la “proprietaria legale e doveva essere riconosciuta dal diritto internazionale”.
Questa logica fu utilizzata in quelle che sarebbero diventate le colonie americane. Giacomo I affermò nella Carta della Virginia che ai coloni potevano essere concessi diritti di proprietà perché le terre non erano ancora possedute da alcun principe o popolo cristiano. Si riteneva che i monarchi inglesi avessero il dovere di diffondere il cristianesimo “a coloro che ancora vivono nell’oscurità e nella misera ignoranza della vera conoscenza e del culto di Dio e di ricondurre gli infedeli e i selvaggi che vivono in quelle regioni alla civiltà umana sotto un governo stabile e tranquillo”. Questo approccio palese e brutale alla colonizzazione delle terre indigene causò un’enorme accelerazione delle esplorazioni e delle rivendicazioni di terre, in particolare da parte di Francia, Inghilterra e Olanda. Nel 1792, il Segretario di Stato americano Thomas Jefferson affermò che la Dottrina della Scoperta europea era una legge internazionale applicabile anche al nuovo governo degli Stati Uniti. La Dottrina e la sua eredità continuano a influenzare l’imperialismo americano e il trattamento delle popolazioni indigene, che ne hanno subito le conseguenze.

Sebbene gli indigeni costituiscano solo il 6% della popolazione mondiale, rappresentano circa il 19% degli estremamente poveri. L’aspettativa di vita dei popoli indigeni è fino a 20 anni inferiore a quella dei non indigeni in tutto il mondo.
Eppure sono loro, gli indigeni, che sanno, e affermarlo non è sentimentalismo o romanticismo new-age. Sebbene i popoli indigeni possiedano, occupino o utilizzino solo un quarto della superficie mondiale, essi salvaguardano l’80% della biodiversità rimanente nel mondo e hanno un rapporto speciale con la loro terra tradizionale e con il suo utilizzo. Le terre ancestrali hanno un’importanza fondamentale per la loro sopravvivenza collettiva, fisica e culturale. Le popolazioni indigene hanno concetti di sviluppo diversi, basati su valori, visioni, esigenze e priorità proprie. Possiedono conoscenze e competenze trasmesse da secoli su come mitigare e ridurre i rischi climatici e di eventi catastrofici. La maggior parte di quel che sanno e sono è legato a una leadership femminile.

E come risponde il resto del mondo? Questa cultura è in grado di usare, sfruttare e commercializzare fulmineamente tutto quel che è indigeno, tranne le verità indigene. 

Di recente il New Yorker ha pubblicato un articolo sul nuovo miglior ristorante degli Stati Uniti, che offre cucina indigena con menu realizzati senza farina di grano, latticini, zucchero di canna, pepe nero o qualsiasi altro ingrediente introdotto nel continente dopo l’arrivo degli europei. È un’idea di Sean Sherman, uno chef Oglala Lakota di 48 anni, diventato famoso praticamente da un giorno all’altro. A giugno, la prestigiosa James Beard Foundation ha nominato Owamni il miglior nuovo ristorante del Paese: si trova a Minneapolis, è gourmet e molto costoso. Come il Wahpepah’s Kitchen di Oakland, in California. Oggi ci sono siti web che pubblicizzano la moda indigena, i gioielli indigeni. E persino nel mondo assai poco commerciale della poesia, la rivista mensile Poetry, già Poetry Chicago, una venerabile pubblicazione fondata nel 1912, ha deciso giustamente di dedicare un intero numero alla poesia indigena.
Non si possono certo negare questi riconoscimenti a un popolo messo a tacere per così tanto tempo. Ma come si fa a capire la differenza tra essere cooptati e vincere? Come si fa a capire quando ci si è venduti o si è comprati?

Se c’è qualcuno che sa come muoversi su questo terreno scivoloso, credo che siano le donne indigene.

Terra nullius. Terra vuota, deserta. Così il potere papale e i monarchi d’Europa, nel loro splendore cristiano, descrissero il Nuovo Mondo: una terra pura, incontaminata, disabitata, ricca di pesci, uccelli, selvaggina, frutti, legname e tanto altro.

Eppure oggi sono le popolazioni indigene a sorgere da essa, come da semi che essi stessi hanno raccolto e seminato.
Le donne indigene oggi sono le difensore della terra, per esempio a Standing Rock, lo storico raduno di tribù in solidarietà per fermare l’oleodotto Dakota Access che avrebbe riversato il petrolio sul territorio. Sono le difensore dell’acqua di El Salvador, che si sono radunate per impedire a una multinazionale mineraria di avvelenare la principale fonte d’acqua del Paese. Sono le donne Aymara, le “Cholitas”, che scalano le vette più alte della Bolivia (con i loro abiti nativi a temperature di 15 sottozero!) per mostrare il loro sostegno ai diritti riproduttivi delle donne. Sono le protettrici della biodiversità, quelle che affrontano gli assassini di intere specie, quelle che impediscono il collasso ambientale.
Negli ultimi 10 anni, ogni due giorni è stato ucciso un attivista ambientale in qualche parte del mondo. Nel 2021, tre quarti di questi omicidi sono stati commessi in America centrale, principalmente da gruppi criminali organizzati e governi che vogliono distruggere la terra per profitto, con le miniere, il disboscamento e le industrie estrattive come il petrolio e il gas. Un recente rapporto dell’ONG internazionale Global Witness ha pubblicato queste e altre statistiche: l’anno scorso, dei 200 difensori dell’ambiente uccisi, 54 erano in Messico. Circa il 40% degli assassinati erano indigeni, anche se le popolazioni indigene rappresentano meno del 5% della popolazione mondiale. In Brasile, da quando è iniziato il monitoraggio delle morti dei difensori della terra nel 2012, sono state uccise 343 persone, l’83% in Amazzonia.

 

Queste attiviste sono la prima linea di difesa contro il collasso ecologico, eppure questi omicidi avvengono in silenzio. Oltre a Brasile e Messico, i Paesi più pericolosi per chi fa attivismo ambientale sono Colombia, Honduras e Filippine. Le uccisioni vengono spesso insabbiate; in Messico, osserva Global Witness, il 94% di questi omicidi non viene denunciato e meno dell’1% dei casi viene risolto.
Non siamo ancora vicini a richieste basate su un’effettiva giustizia. Siamo lontani, per esempio, dalle richieste di sovranità dei territori indigeni, in Nord America o nelle Filippine. E questo sullo sfondo del cambiamento climatico globale, che si muove a ritmi più rapidi del previsto e che presto raggiungerà il punto di non ritorno!

Si tratta di una lotta per la sopravvivenza, una lotta che gli indigeni conoscono tragicamente, ma che sono in grado di condurre come nessun altro – se solo noi li seguissimo.

*L’illustrazione si basa sulla Carta geografica di Peters, disegnata nel 1973 in un’ottica anti-coloniale e non convenzionale. Il planisfero è fedele all’asse terrestre e alle proporzioni reali della Terra. Leggi la storia.  qui

*L’articolo è apparso il 31 ottobre 2022 sul blog di Robin Morgan

 

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