Te squaglio

di Laura Marzi
Illustrazione di Teresa Sdralevich

Poco più di una settimana fa ho sentito invocare da un giornalista di oltre settant’anni, tabagista e con pochi denti, la necessità e il desiderio che si scateni in Italia la guerra civile. Intendeva fra fascisti e anti-fascisti, anche se non lo ha specificato. Una femminista che era sullo stesso palco ha poi cercato di correggerlo, parlando invece di conflitto, ma a me è rimasta impressa quella sua voglia di scontro fratricida più che i diversi tentativi fatti in seguito per riportarlo alla ragione.

Anche ieri, ma solo dopo, ci ho pensato.

Prima mi sono ripetuta varie volte e l’ho detto anche al mio fidanzatino quarantenne come me che mangiare la trippa al parco era la cosa più cool possibile. Io l’avevo comprata a Firenze in una bottega che conosco, lui l’aveva cucinata con il sugo e le patate. Insieme su una panchina che dava sui resti di un acquedotto romano e su angoli diversi di prati a gramigna e tulipani, io mi sono sporcata la bocca di sugo, lui mi ha detto che era la prima volta che mi vedeva mangiare qualcosa con tanta foga. Poi un pisolino sulle sue gambe, risate, dei bacini.

Abbiamo esitato se prendere i caffè nel bar ristorante del parco perché sembrava un posto buio, ma in strada, mentre andavamo a fare il pic nic in bici avevamo trovato tutto chiuso, per questo siamo entrati e al bancone abbiamo chiesto che ce li facessero in tazza, invece che nella plastica.

“Non si può”.

La mia felicità prepotente, un’arroganza data dalla perfezione della trippa al parco, da una domenica insieme a un uomo che amo da tempo e che non è quasi mai qui dove io vivo, mi hanno resa esigente.

“Perché?” ho chiesto.
“Ordini del proprietario”.
“Ma lei sta facendo altri caffè in tazza, perché a noi dà la plastica?” ha puntualizzato il mio fidanzatino.
“Ridaglie i sordi, ridaje i sordi e basta” ha detto un giovane uomo comparso improvvisamente con un taglio di capelli molto regolare e bicipiti decisamente allenati sotto la sua maglietta nera.

Dal ritmo bucolico della panchina, il tempo è diventato in un istante solo concitato, io mi sono avvicinata alla cassa confusa, la signorina mi ha reso le monete mentre io invitavo il proprietario a spiegarmi.

“Certo, ‘a prossima vorta farò meglio, per lei farò meglio” mi ha risposto canzonandomi.

La guerra civile.

“Vai a farti fottere” gli ho detto io.

Ero stata esigente prima, volevo con convinzione il caffè in tazza, ero vestita elegante con gli abiti e le scarpe di mia madre e portavo il mio taglio di capelli molto alla moda, ma prima e dopo quell’attimo di schizzinosa nobiltà non sapevo come pagare l’affitto, che lavoro fare, che fine farà il mondo, se ho fatto bene a non fare i figli, perché ho sempre male dappertutto e perché persone più sceme di me hanno tutte una casa di proprietà e costanti riconoscimenti economici.
Il tipo proprietario si è avvicinato al mio fidanzatino, con la sua faccia a pochi centimetri dalla sua faccia.

“Parlo co’ te perché lei è donna” gli ha urlato da vicino.
“Perché? Che c’entra che sono donna?”.
“Ma cosa vuoi fare, ci vuoi menare?” gli ha detto con accento del nord, occhiali da hipster e una giacca a doppio petto il mio compagno.
“Io a uno com’a te ‘o squaglio” gli ha risposto da laziale l’altro.

Avevo una pinza a pappagallo nella borsa, di ferro, lunga venti centimetri, ma ho agito come se non ce l’avessi.

“Fatti meno cocaina” gli ho consigliato però.

A quel punto, forse perché si era fatto davvero la cocaina, forse perché aveva smesso e gli era costato fatica o perché qualcuno dei suoi familiari a causa della cocaina si era mangiato tutto il patrimonio, anche il suo, l’energumeno con cui il mio oroscopo della settimana aveva previsto litigi ha iniziato a lanciare oggetti a destra e a manca.

“Io me rovino ‘a vita ma a voi due v’ammazzo, v’ammazzo” sbraitava.

La guerra civile.

Io e il mio fidanzatino siamo rimasti fermi. In attesa. Agitati dal repentino cambio di scenario, dalla trippa alla rissa, ma pronti. Non solo non avevamo paura, ma c’era una certa voglia di lanciare la morte di un padre, l’assenza di lavoro e certezze, la fine della gioventù contro quello sconosciuto che si credeva un uomo vero, a pugni, morsi e colpi di pinza a pappagallo.
A impedircelo, spingendoci fuori con gentilezza, è intervenuto il cuoco bengalese. Lui tutti i giorni deve avere quel capo. Lui tutti i giorni dovrebbe avere se non una pinza a pappagallo nella tasca della divisa quanto meno un sindacato. E noi tutti una casa.

E il nemico? Cosa dovrebbe avere il nemico?

Quello che sta dentro di me, dovrebbe avere un partito in cui riconoscersi, un check up ormonale, un lavoro adatto al suo titolo di studio.

L’altro oltre il bancone non dovrebbe avere il potere, il parlamento e il governo dalla sua parte.

 

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