Sul lettino online

Intervista a Gianna Candolo

di Redazione
Illustrazione di Marilena Nardi

 

A un anno dall’inizio della pandemia chiediamo a un’amica psicoterapeuta di formazione psicoanalitica, Gianna Candolo, di raccontarci cosa è cambiato nel suo lavoro. Gianna vive a Bologna, dove ha lavorato nell’istituzione sanitaria pubblica, È socia del CRPG, Centro di Ricerca Psicoanalisi di Gruppo e della Libreria delle donne di Bologna.

Come hai affrontato la pandemia e il lockdown che hanno interrotto all’improvviso le consuete sedute in studio?

Durante la prima ondata di marzo 2020, i pazienti stessi hanno scelto il telefono per le sedute a distanza. Solo successivamente, per recuperare un rapporto con il corpo così importante nelle psicoterapie, abbiamo scelto la videochiamata. All’inizio tutti noi, psicoterapeuti e pazienti, ci siamo trovati a improvvisare e poi a ripensare assieme, con colleghi e colleghe, a questo repentino e da tutti praticato cambio di setting. Il secondo lockdown ci ha trovati più preparati e pronti a gestire al meglio il passaggio all’online tramite whatsapp.
Di necessità virtù: ci siamo adattati, con perdite e guadagni.

Sappiamo bene che essere in connessione non equivale a essere in contatto. Quali perdite e quali guadagni stai sperimentando?

Nel passaggio, registro la perdita di quegli elementi sensoriali che spesso sono il cuore delle sedute: toni di voce, odori, movimenti, respiro, lacrime, sorrisi. Tutta questa nuvola comunicativa, che spesso è l’unico segnale della permanenza emotiva e che precede la comunicazione linguistica, nella seduta online evapora. D’altra parte, la tecnica deve adattarsi al paziente e non viceversa: in questo momento il contatto online è il modo in cui questi adattamenti possono integrarsi e portare a una trasformazione del dolore, a un ampliamento di relazione.
Lo sguardo e la voce diventano gli unici elementi a cui aggrapparsi. Online io parlo di più, come se sentissi che è necessario usare la voce per garantire il contatto.
Mi pare che questa pratica si avvicini alla cura dei pazienti Covid che sono confortati da visi dietro mascherine e visiere, e da voci attutite e lontane. Questa connessione mi porta a pensare alla paura che accomuna i soggetti della coppia analitica: le paure del pazienti sono quelle del terapeuta.

Come è cambiata negli ultimi decenni la relazione paziente/terapeuta, facendo riferimento alla tua formazione?

Dagli anni 80-90, con la ricerca clinica e teorica dell’intersoggettività e del “campo analitico”, l’asimmetria tra paziente e terapeuta si è molto attenuata; il lavoro psicologico si fa in due e l’impegno e l’investimento sono reciproci. L’inconscio stesso, invece che continente da scoprire, diventa una costruzione il cui materiale viene portato da entrambi. Il paziente ri-costruisce e ri-narra una nuova storia, che in parte è il risultato della storia dell’analista con lui o lei. A sua volta l’analista deve adattarsi a ogni paziente, scoprendo in questo modo nuove parti di sé. Nella pandemia questi aspetti si amplificano. A volte il timore del contagio, comune a entrambi, vela il differente significato che ha per i due soggetti: è necessaria allora un’attenzione supplementare a elementi marginali in cui si esprime il nuovo contatto, al di là della paura del contagio.
Nella relazione terapeutica, i membri della coppia analitica sono in contatto e reciprocamente contagiati dal punto di vista psichico, ma quando questi elementi intaccano anche il corpo, si crea un altro significato: al posto del contatto e del contagio vitale, portatore di trasformazione e crescita emotiva, la vicinanza diventa potenzialmente mortifera. Dal punto di vista dei contenuti, i miei e le mie pazienti non hanno cambiato la loro storia narrata nelle sedute: sono rimasti fedeli ai motivi per i quali hanno chiesto un accompagnamento nelle vicende dolorose della loro vita. Qualcuno sfiora il virus per poi passare ad altro, altri riescono a connettere alcune paure che sono amplificate, ma senza soffermarsi troppo: sono interessati alla scena interna più che a quella esterna.

Puoi approfondire alcuni aspetti? In particolare ci interessa il tuo punto di vista sulla depressione, sociale e soggettiva.

Nei pazienti gravi, psicotici o borderline, il virus ha provocato una specie di rovesciamento: la patologia ha lasciato il posto a un senso di realtà, a uno stentato e impercettibile inizio di un prendersi cura di sé, e a volte degli altri. Come se vedessero per la prima volta che le paure sono collettive, che anche gli altri stanno male.
Un altro cambiamento riguarda famiglie e coppie: le convivenze forzate e il cambio del ritmo separazione-unione sconvolgono le famiglie, anche quelle che all’apparenza sembravano più equilibrate. Quelle che non se la passavano bene neanche prima, sono crollate. Il cambio di abitudini è un terremoto: bambine e bambini a casa, senza spazio e socialità, adolescenti senza gruppi di riferimento, adulti in smartworking che a volte è, soprattutto per le donne, faticoso e insopportabile. Aumentano i litigi: chi e cosa è più importante? Si scoprono gli esclusi e gli inclusi, chi ha più potere, chi deve cedere, con risentimento e rabbia…
Un paradosso: diminuisce la patologia grave, aumenta la rabbia personale, nelle famiglie e nello spazio pubblico.
Gli aspetti depressivi rimangono sullo sfondo, sospesi: nella precarietà, ci si aggrappa alla rabbia e al risentimento, perché sembrano contenere un aspetto di vitalità, utile per attraversare l’incertezza del futuro. Ma il paziente già intravede, nello stato depressivo, il dopo: la paura della crisi economica e del crollo sociale rivela lo sfondo minaccioso del prossimo futuro, in grado di contagiare il suo soggettivo crollo depressivo, quello che sta già emergendo in chi perderà il lavoro, in chi sarà costretto a sacrifici economici o ad avere un tempo senza piacere. La depressione induce a immaginare un vuoto senza speranza.
Questo imminente vuoto è tenuto lontano, ma non è assente, dalla sospensione in cui siamo tutti e tutte immersi. Viene evocato da paure incongruenti, da inerzie e passività sui compiti quotidiani, da fatiche e lamenti eccessivi rispetto a fatti ed emozioni raccontati e provati…

Nell’oscillazione tra rabbia e paura come si svolge il tuo lavoro analitico?

Sto esercitando un’attenzione particolare a elementi apparentemente marginali, unico segnale di angoscia latente che non può ancora essere pensata. In questo momento manca lo spazio mentale, un contenitore capace di racchiudere ed elaborare le angosce non ancora pensabili o trasformabili, che sono potenzialmente segnali di cambiamento verso la vitalità e l’arricchimento che il trauma, quando è metabolizzato, può portare.
Ma proprio il fatto di essere “sulla stessa barca” rende per noi terapeuti pesante e laborioso reggere il timone e per le nostre e i nostri pazienti tenersi stretti alla barca. Stiamo cercando assieme di sopportare il mal di mare, in attesa che la tempesta finisca.

 

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