Sette domande a Frank Raes, climatologo e attivista

di Redazione
Vignette di Pat Carra

Frank Raes è un importante climatologo di origine belga. Ha lavorato al Joint Research Centre della Commissione Europea e dal 2000 ha diretto per Ispra l’unità sui cambiamenti climatici e la qualità dell’aria in supporto alle politiche europee. Nel 2017 ha fondato a Laveno Mombello il Museum of Anthropocene Technology, per approfondire gli aspetti culturali che frenano o incoraggiano gli esseri umani a vivere in pace con se stessi e con il resto della natura.

Quando hai scelto di dedicarti allo studio della climatologia?

Negli anni Settanta, quando ero all’università, non esisteva un corso di climatologia, abbiamo imparato strada facendo. Per la tesi di dottorato studiavo in laboratorio come si formano le nuvole, come i gas si trasformano in liquidi e gocce micrometriche per poi diventare gocce di nuvola e di pioggia. In gennaio 1989 ho visto sulla copertina del Time un’opera d’arte di Christo: la Terra impacchettata in un telo di plastica. Time aveva scelto la Terra come “Planet of the Year”. Negli anni Ottanta erano state identificate diverse emergenze ambientali, dalle piogge acide al buco dell’ozono, e il cambiamento climatico antropogenico cominciava a essere misurabile. L’opera di Christo illustrava l’impatto umano sul pianeta. Sono uscito dal laboratorio e ho cominciato a applicare le mie conoscenze all’atmosfera e alle nuvole vere.

Come è avvenuto il passaggio da scienziato ad attivista?

Lavorando per la Commissione Europa, ho sempre dovuto parlare di clima e scienza a colleghi policy-makers che spesso non erano scienziati. Era un impegno trovare un linguaggio comprensibile. Quando poi abbiamo visto come alcune persone, giornali e industrie, cominciavano a confondere i risultati scientifici o addirittura a negare e denigrare la scienza, questo impegno è cresciuto e siamo usciti dalla nostra torre d’avorio per cercare di spiegare come stavano veramente le cose. In questo senso sono diventato attivista. In un mondo sempre più sommerso da fake news, parlare di dati scientifici in modo comprensibile è diventato attivismo.

Noi Erbacce siamo interessate agli effetti dei diserbanti, ne va della nostra sopravvivenza. A parte le conseguenze sulla terra, ti chiediamo qual è l’impatto del business agrochimico/agroalimentare sul cambiamento climatico, quali sono le tecniche più invasive.

A livello della UE, nel 2016, l’agricoltura era responsabile per il 9% di tutti i gas serra emessi. A livello globale la percentuale è poco di più. Le attività più dannose per il clima sono l’allevamento di animali che produce metano e l’uso di fertilizzanti artificiali, i nitrati, che portano alle emissioni di N2O. Metano e N2O sono gas serra molto più potenti della CO2. L’effetto dell’agricoltura sul clima è rilevante e, come in ogni settore, è il modello di business che dovrebbe cambiare.

 

C’è una relazione infernale tra sfruttamento dei combustibili fossili e diffusione delle guerre. Le Erbacce vorrebbero notizie sulle conseguenze per l’atmosfera e il clima. Piovono bombe, frullano droni, brucia petrolio e noi siamo un po’ confuse sul da farsi.

Non ci sono dati ufficiali sulle emissioni da parte dell’apparato militare. Protocolli e accordi internazionali non ne parlano. Recentemente un gruppo universitario ha stimato che tutte le operazioni della difesa americana durante l’anno 2017 hanno prodotto una quantità di gas serra (59 Mio ton of CO2) pari a quella di un paese come la Svezia, ovvero circa lo 0.1% delle emissioni globali. Tutte le guerre e le azioni militari in atto in questo momento avranno un impatto sul clima globale minore rispetto a quello di tutte le auto, aerei, navi in circolazione. Hanno invece un fortissimo impatto localmente sull’atmosfera: fumi, polveri, veleni…
Ma la prima ragione per essere contro la guerra non è certo l’inquinamento.

La tecnologia e la crescita esponenziale di un mondo iper connesso sta depauperando i rapporti umani e le nostre intelligenze. Qual è l’effetto sul clima?

Internet e la sua rete di PC e telefonini consumano energia, e emettono una quantità di gas serra pari a quella di tutti gli aerei che volano intorno alla Terra. Internet è responsabile per il 2% delle emissioni globali ma la percentuale sta crescendo velocemente. Dobbiamo chiederci come ci adatteremo a cambiamenti climatici non più evitabili. Il mondo si è dato l’obiettivo di tenere l’aumento della temperatura globale al di sotto dei 2°C rispetto al periodo preindustriale. Oggi l’aumento è di 1,1°C e già vediamo eventi meteorologici estremi, siccità, alluvioni, la Groenlandia che si fonde. Come possiamo prepararci a questi cambiamenti della natura se siamo sempre più virtuali e lontani dalla natura? Accettiamo uno scenario in cui diventeremo tutti robot, e quindi non ci importerà più niente del clima e della natura?

 

Si dice che la specie umana è troppo numerosa, siamo oltre sette miliardi, eppure in Italia ci sono politici che si preoccupano del calo demografico e tuonano di patria e famiglia.

Forse anche a me piacerebbe un mondo con un po’ meno umani e qualche pantera in più. Ma credo che sia più umano considerare che potremmo essere anche dieci miliardi di persone, se tutto quello che offre la Terra venisse distribuito in modo equo. Quelli che tuonano di patria e famiglia lo fanno per una ideologia basata sulla paura dell’altro. Di conseguenza ci si ritira in un pensare e agire localmente, mentre il cambiamento climatico e altri problemi collettivi richiedono di pensare globalmente: think global, act local.

Davanti all’evidenza dell’allarme climatico molte persone, soprattutto giovani, stanno prendendo coscienza, pensiamo a Friday For Future e Extinction Rebellion. Molte altre chiudono gli occhi, perché hanno paura o si sentono impotenti. Ci interessa sapere se hai trovato un approccio per dire la verità e provocare un salto di coscienza senza alimentare la paura.

A volte, dopo avere fatto una presentazione sui cambiamenti climatici, mi chiedono se sono ottimista o pessimista. Rispondo sempre che sono possibilista. È una parola molto usata da Hans Rosling, grande comunicatore dei dati statistici che riguardano l’evoluzione della nostra specie. Essere possibilista significa che, considerate tutte le conoscenze di cui disponiamo, le tecnologie, la volontà che a volte c’è nel mondo politico, la grinta che c’è nei giovani… considerati tutti questi elementi, so che è ancora possibile evitare un cambiamento climatico disastroso per la civiltà umana. La transizione necessaria è in corso, ma dovrebbe accelerare molto.

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