Lo Stato che non c’è mai stato

di Robin Morgan
Illustrazione di Federico Zenoni
Traduzione di Margherita Giacobino

 

Poche settimane fa, la legislatura dell’Oklahoma ha approvato la legge più draconiana degli USA contro i diritti riproduttivi, concedendo di fatto ai tessuti fetali lo status di “persona”.
Lo Stato dell’Oklahoma ha un suo drammatico background storico.

Come ha scritto Erin Blakemore sul National Geographic, in origine l’Oklahoma si chiamava Sequoia, il termine Choctaw per “popolo rosso”. Ma il soprannome dell’Oklahoma, “lo Stato dei Sooner” ovvero dei primi arrivati, deriva dagli europei bianchi che vi si riversarono per appropriarsi delle terre dei nativi. Nel luglio del 2020, la Corte Suprema degli Stati Uniti ha stabilito che, nonostante la sua posizione all’interno di uno Stato americano, quasi tutto l’Oklahoma orientale è una Riserva Indiana; si è trattato di una decisione storica e dell’ultima mossa nella battaglia su chi debba possedere e abitare le praterie e le mesas dell’Oklahoma.

Il conflitto nacque nel sud-est degli Stati Uniti, nelle terre ancestrali dei popoli Cherokee, Chickasaw, Choctaw, Muskogee (Creek) e Seminole che si estendevano dall’odierna Carolina del Nord al Mississippi. I colonizzatori bianchi che invasero l’area verso la fine del ‘700 e poi dell’800 chiamarono queste nazioni native “le cinque tribù civilizzate”, un appellativo offensivo legato alla loro disponibilità a sviluppare legami economici e sociali con i bianchi. Tuttavia, i nuovi arrivati bianchi fecero pressioni sul governo degli Stati Uniti perché allontanasse le popolazioni indigene dalle loro terre.

Nel 1830, il Congresso approvò l’Indian Removal Act, che permise all’allora presidente Andrew Jackson di concedere alle tribù di nativi americani alcune zone a ovest, “in cambio” delle loro terre ancestrali. Le cinque tribù furono spinte a forza a firmare una serie di trattati con cui cedevano le loro terre in cambio di promesse, tra cui un trattato del 1833 che garantiva “una casa permanente all’intera nazione Creek”. Tuttavia, molti indigeni rifiutarono.

Dopotutto, queste erano le loro terre ancestrali; generazioni e generazioni vi erano nate e vissute, avevano cresciuto famiglie, sviluppato culture, vi erano morte e sepolte. Così la gente fece resistenza, ma fu cacciata dalle sue case sotto la minaccia delle armi. Tra il 1830 e il 1850 furono trasferiti più di 100.000 indigeni americani. Questa migrazione forzata rimase nota come “Sentiero delle lacrime”.

La loro destinazione, la loro nuova “casa”, si trovava a 1600 km di distanza, in un’area a ovest del Mississippi e a est delle Montagne Rocciose: clima diverso, falde acquifere diverse, suolo diverso, flora e fauna diverse, tribù vicine diverse, tutto diverso. Eppure si stabilirono  sul territorio dell’attuale Oklahoma centrale e orientale, insieme ad altre 21 tribù.

Nel corso degli anni, però, gli Stati Uniti si impadronirono di altre terre dei nativi e il territorio indiano si ridusse fino a raggiungere all’incirca i confini dell’odierno Oklahoma. Si ridusse ulteriormente quando gli Stati Uniti passarono dalla politica della rimozione a quella della lottizzazione, un sistema progettato per forzare l’assimilazione dei nativi dividendo le loro tradizionali terre comuni, supervisionate dai governi tribali, in piccole proprietà individuali. Le terre furono spezzettate in piccoli lotti e distribuite a singoli individui, molti dei quali furono spinti dalla povertà a vendere le loro quote ai colonizzatori bianchi o al governo degli Stati Uniti. Questi cosiddetti “coloni” cercarono anche di impossessarsi delle “terre non assegnate”, una fascia di 800.000 ettari nell’Oklahoma centrale che i Muskogee e i Seminole (che si erano schierati con la Confederazione durante la Guerra Civile) erano stati costretti a cedere oltre un decennio prima. I boomers, gli aspiranti coloni, occuparono i terreni ed esercitarono forti pressioni sul governo federale, che accettò di aprirla all’insediamento dei bianchi nel 1889. Cinquantamila europei si riversarono nelle aree circostanti in attesa dell’apertura delle terre il 22 aprile 1889 (alcuni entrarono illegalmente prima, da cui il soprannome di Sooners, “primi arrivati”).

In un solo giorno i bianchi si accaparrarono circa undicimila insediamenti.

Poco più di un anno dopo, il governo federale creò il Territorio dell’Oklahoma dalle “terre non assegnate” e dalle terre dell’Oklahoma occidentale. I “coloni” erano ansiosi di trasformare il territorio in uno Stato per ottenere una rappresentanza al Congresso. Ma i coloni e il Congresso la pensavano diversamente su come procedere e, mentre il dibattito infuriava, bianchi europei continuarono ad affluire in Oklahoma e nel territorio indiano, finendo per superare di gran lunga i residenti nativi.

Nel 1898 il governo federale spianò la strada alla creazione di uno Stato con il Curtis Act, che proclamava l’abolizione dei governi tribali nel marzo del 1906 e costringeva le cinque tribù ad accettare la legge sulla lottizzazione da cui erano state precedentemente esentate.

Nel disperato tentativo di mantenere la sovranità, le tribù tennero una convenzione per formare un proprio Stato. Nell’agosto e nel settembre del 1905, redassero una bozza di costituzione e di governo proponendo uno Stato governato da nativi americani che chiamarono Sequoia. Sul  Territorio Indiano la proposta passò con un referendum approvato a schiacciante maggioranza dagli elettori sia nativi sia bianchi europei, ma il Congresso non votò mai sulla questione.

Invece, il Congresso approvò l’Oklahoma Enabling Act del 1906, una nuova legge che invitava i rappresentanti a formare uno Stato che unisse l’Oklahoma e i territori indiani. Nel 1907, l’Oklahoma divenne il 46° Stato della nazione. Oggi, più del 13% degli abitanti dell’Oklahoma sono nativi americani; l’Oklahoma è al secondo posto negli USA per numero di Nativi Americani.

Ma continua a mancare tragicamente lo stato fantasma che doveva esserci e non c’è mai stato: Sequoia.

ˆL’articolo è stato pubblicato in origine il 12 giugno 2022 sul blog di Robin Morgan

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