Le sofistiche | Let it be

di Francesca Maffioli e Laura Marzi
Illustrazione di Isia Osuchowska

 

Cara Protagora,

I mesi di intervallo dal nostro ultimo dialogo sono passati lenti e lunghi come la pausa invernale che consentirebbe d’ibernare – anche rispetto alle passioni. Le mie son qui, tutte sveglie.
Mentre ti scrivo, oggi, siamo in quella che un poeta degli anni futuri (e altri ancora prima di lui…) chiamerà la quinta stagione. Egli parlava di queste settimane – l’ultima di febbraio e le prime di marzo – come di una stagione di transito, non ancora primavera e già non più inverno.
Una stagione d’alba, ma anche di finitudini. E la tua Gorgia si sente un po’ così, in una quinta stagione, con le sue attese e le sue fini. Ma veniamo or dunque al di noi filosofare.
Vorrei dimandarti, mia cara Protagora, non tanto se hai formula che mondi possa aprirmi ma se sai dirmi come cominciare un nuovo cammino condiviso: un nuovo amore o anche una nuova assenza di questo, senza l’assillo maniaco di non lasciare andare quello che è stato. Quell’Eraclito di Efeso, sì proprio quello che parlava di fiumi che non si possono scendere due volte e dell’impetuoso cangiare, diceva di un continuo mutare che governerebbe il divenire – perpetuo – di tutti gli esseri sensibili.  Io, sofistica stolida, il suo pánta rheî lo capisco poco, perché vorrei tutto tenere e niente lasciare. E il governo inconoscibile che soggiace alla dialettica del nostro esistere a volte lo vorrei meno oscuro, per meglio capire e meno sperare. E vorrei anche smettere di fidarmi, stolida due volte, delle tracce di quella via, quella di già percorsa – di quelle miettes luccicose che Pollicino seminava nel suo cammino per potersi ritrovare.
Dimmi saggia Protagora, e dammi luce in queste mie ombre. Com’è possibile immaginare nuove strade da percorrere senza l’assillo di conservare il ricordo di quelle percorse? Come lasciare andare le passate per dare spazio alle presenti e future?

Diletta Gorgia,

Kronos è stato sovrano severo e impaziente, come tu ben dici, eppure anche se sono trascorse molte lune dal nostro ultimo dialogo, tale è la consonanza di strade, di occhi, del sentire, che quasi mi pare che quel fiume di cui parla Eraclito di Efeso faccia un’eccezione solo per noi che sembra ci bagniamo, seppur lontane, esattamente nelle stesse acque.
Come posso Gorgia carissima rispondere alla tua domanda se io per prima sono afflitta dallo stesso dilemma? Tutto ciò che posso offrirti è il succo di mille giorni persi a cogitare, nel rammarico di non riuscire ad abbandonare l’amore stanco e impossibile non già, non solo per incontrare un nuovo amore, ma per assaporare il bene per me stessa.
Non so se ti accade Gorgia cara, come occorre a me, di sentire tutto il sapore sordo e amaro della solitudine, ma di percepire insieme a esso anche di averla scelta questa esistenza lontana dal calore di un focolare. Lo abbiamo fatto per l’irresistibile filosofare, per l’imprescindibile autodeterminazione, per la chimera di una libertà di cui solo noi potevamo decidere i confini. Ora però, seppure tutte queste istanze siano rimaste intatte, non lo è più la mia baldanza incendiaria e anche tu meravigliosa filosofa valchiria sei affaticata. Ci accontentiamo allora di un affetto sbilenco, dell’assenza intermittente, pur di avere una voce a cui fare appello, un nome da porre accanto al nostro bisogno d’amore.
Orbene, quello che ho imparato in questi lunghi mesi di biasimo nei confronti di me stessa che non so più appiccare il fuoco al mio presente, raccogliere il fagotto e cambiare dimora, città, in cerca di una nuova vita e di un nuovo amore è che non voglio pugnare contro me stessa.
Arriverà il tempo, arriverà tra poco in cui sapremo la strada, sarà già sotto i nostri piedi, quando Kairos spodesterà Chronos. Aspettiamolo insieme canticchiando una lirica di talentuosi musici del futuro: let it be, let it be, let it be, whisper words of wisdom, let it be…

 

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