La signora dei biscotti

di Marta Ardesi
Illustrazioni di Pat Carra

 

Dopo nove mesi di lockdown ininterrotto ho fame. Fame di un altro viso nello specchio, di un altro odore addosso, di un corpo da imparare dal principio, di un sesso che non sia il mio, di mani che non conosco, di carezze che mi percorrano in modi nuovi.
Ho fame. Una fame mai presa in considerazione, mai davvero capita quando altre persone mi hanno parlato della propria in passato. Una fame che mi apre solchi nella carne e nel cervello, che mi agita le notti e scoperchia i giorni, tutti simili gli uni agli altri, impilati gli uni sugli altri. Ho fame sempre, ho fame ciecamente, ho fame visceralmente, ho fame indistintamente.
Ho fame ma sono anche un animale sensibile, so che non userò un altro corpo, un altro cuore, un’altra esistenza solo per riempire la mia per un paio d’ore.
Ho fame, ma non così tanta da cercare gusci vuoti. Ho fame di essere umani colmi.

Mi ha inviato un messaggio per dirmi che avrebbe tardato quindici minuti, ho riposto nessun problema, in realtà mi ha dato fastidio, tanto, però mi sono detta rimani tranquilla, non fa nulla, è solo un pochino in ritardo, non farne un problema, capita, a te non capita, ma alle altre persone sì per cui aspettala e prepara il bollitore nell’attesa.
Dopo quindici minuti precisi ha attraversato il giardino quasi correndo, ha bussato energicamente alla porta, è piombata in casa, ha lanciato gli stivali ai piedi del divano e si è tolta il cappotto mollandolo sul davanzale della finestra. Osservo questi suoi primi gesti nella mia vita e non me ne piace neanche uno. Lei appare a suo agio in questi miei spazi, del tutto nuovi per lei ma ai quali sembra adattarsi immediatamente: Vado in bagno, mi dice, Certo, sì, rispondo, anche se non era una domanda; attraversa il corridoio, le vado dietro per dirle dove si trova… Bella la tua stanza!, mi lancia proseguendo verso la toilette, Grazie, rispondo io correndole dietro come una cretina, Carina la stanza di tuo fratello, mi urla prima di chiudersi la porta del bagno alle spalle.
Torno in salotto e attendo il suo ritorno in silenzio mentre fisso le sue cose lasciate in giro: in meno di un minuto lei è già dappertutto qui dentro. Osservo il cappotto, gli stivali, ascolto il rumore che fa in bagno: passi, lavello aperto e porta che si apre e che si chiude sbattendo, e ho la sensazione di aver lasciato entrare dentro casa l’essenza di una tempesta.

È seduta sul divano, il suo corpo è lontano dal mio, opposto al mio. Continua a tirarsi giù le maniche della maglia, Hai freddo?, le chiedo e mi risponde di no, Sei comoda?, insisto, Sì, comodissima, dice sorridendomi. Mi racconta di quando si è innamorata della sua compagna di banco da adolescente, di quando andavano a fare campeggio insieme nel Lake District e di come si siano allontanate senza sforzo e senza drammi una volta entrate nella giovinezza. Annuisco. Mi racconta di come abbia capito di essere bisessuale grazie a quell’amore, ma la sua vita sia poi stata molto eterosessuale, monogama, come mille altre. Mi confida dettagli erotici e sentimentali molto intimi, io l’ascolto sorpresa e divertita. Lei si fida di me, è evidente. M’incoraggia a raccontarle di me, del mio passato, del mio presente, di ciò che desidero per il futuro e dove sono in questo preciso momento della mia vita: rispondo a vanvera, come se avessi dimenticato completamente chi sono e qual è la mia storia. Ascolto le parole che mi escono di bocca senza credere a quello che sto farfugliando. Sono nervosa e le sto dicendo cazzate, mezze verità, cose poco precise, ma me ne accorgo quando hanno ormai raggiunto il suo orecchio. Cosa le stai raccontando? chiedo a me stessa. Quello che vuole sentire, quello per cui è venuta. Vuoi impressionarla mentendo? Sì.
Mi rendo conto solo adesso di quanto misera sia la mia conoscenza in fatto di appuntamenti con le donne: non so neanche da dove cominciare, come presentarmi, come muovermi, cosa dire per farle una buona impressione e non sembrare un’idiota. Lei è la prima donna con la quale ho un appuntamento vero e proprio e mi sa che sto facendo tutto malissimo. Mi dispiace per lei, perché merita molto di più e lo so.
Ho avuto innamoramenti platonici e non corrisposti per ragazze fin dalla giovinezza, molti delicati e fluidi, per nulla struggenti, colmi di cuore e privi di corpo; innamoramenti rapidissimi, come saette che si tuffavano giù dal mio cielo dando vita a cambiamenti profondi; innamoramenti lunghissimi divenuti poi amicizie eterne, fatte di quotidiano e grandi distanze. Mi sono detta: Se senti di voler percorrere questa via, percorrila con gioia, con tutto il corpo che hai. Sii generosa, sii felice, sii appassionata!
Non sto facendo un gran lavoro, mi sembra.
La lascio continuare con le sue storie di amori, dolori e viaggi passati: è molto tenera, addolorata, intelligentissima, piena di magnifici angoli e curve da conoscere, ma è in questo istante esatto, nell’osservarla così dentro di sé, che un pensiero mi spacca il cervello a metà e colgo una verità per la quale non esiste rimedio: il Niente. Non sento niente. Il mio corpo è chiuso verso di lei, asciutto, immobile. Quasi non lo riconosco. Quello che lei sta convivendo con me non mi s’imprime dentro in nessun modo, non lascia alcuna impronta, smette di esistere nell’esatto secondo in cui nasce.
Mi confida di non essere l’unica persona bisessuale nella sua famiglia e che una sua zia materna si è sposata molto giovane con il postino del paese per poi divorziare e trascorrere il resto della sua vita con la vicina di casa. Stanno insieme ancora adesso, dopo trent’anni, vivendo in case separate. Lei ride divertita per questa storia familiare, io sorrido a specchio come meglio posso, anche se dentro sono abitata da nubi di lieve tristezza e dispiacere.
Mi sento ancora più nervosa, mi viene il singhiozzo dal disagio, ma cerco di concentrarmi su quello che lei mi versa addosso senza pause. Ascolto, la ascolto davvero, ma senza dire nulla. Questo Niente che sento mi stupisce e mi mortifica. Percepisco le aspettative di questo incontro scivolarmi fuori dal corpo, come un’emorragia inaspettata creata da una ferita della quale non sai trovarne l’origine. Senti colare fuori, ma non sai da dove.
Ho davanti agli occhi una sequenza di azioni che semplicemente non accadranno: i nostri corpi farsi più vicini fino a trovare una sottile aderenza, sfiorare il suo viso mentre le scosto i capelli chiari e spettinati, guardarci negli occhi in quel primo momento che racchiuderà tutti i seguenti, affrontare l’aderenza e far venire giù tutte le barriere che ancora restano salde, poi il primo bacio, tutte le parole sgretolarsi sul pavimento, solo respiri bocche mani schiene gambe maree che emergono per riconoscersi e condividersi.
Il mio primo bacio a una donna.
Il tempo di un respiro emesso a metà e vedo questi istanti futuri cancellarsi l’uno dopo l’altro, perdere consistenza e dileguarsi in un secondo, quell’unico secondo in cui tutto sarebbe potuto esistere, diventare.

 

Mi fissa il seno, me ne accorgo e mi dà fastidio, prendo un’ulteriore distanza da lei, anche se minima; il corpo si piega indietro impercettibilmente, un lieve scatto involontario, ma tanto basta per comprendere che la sola possibilità che avevamo è finita e io lo so, mi chiedo se lo sappia anche lei. Lo capisco chiaramente mentre sono ancora seduta con le gambe incrociate sul divano, scalza come sempre, con il culo comodo nei pantaloni genderfree color petrolio e con una maglia blu scuro elettrico che dovrebbe coprirmi quel petto che invece lei non smette di guardare, i capelli lunghi raccolti, il viso nudo, mentre lei mi spiega che il figlio minore, quindici anni, trascorre i suoi giorni a spaccarsi di fumo e a giocare con la Playstation.
Fingo di prestarle attenzione, le porgo domande pertinenti ai suoi racconti, mentre invece penso al fatto che non so come ci si debba vestire per un appuntamento con una donna, così mi sono vestita per me stessa, con le solite cose, niente di speciale. Non so che cosa fare, neanche adesso, soprattutto adesso. Aspetto un segno, un segno da lei, un segno da me stessa, qualunque cosa che possa interrompere questo momento che sembra interminabile.
Si ricorda all’improvviso che ha preparato dei biscotti e questo è il segno che stavo aspettando: mi alzo di scatto dal divano, corro in cucina con un entusiasmo esagerato, accendo il bollitore, lei mi segue e si siede su uno sgabello. I suoi occhi mi scrutano da dietro gli occhiali, ancora, e misurano i miei movimenti, il tono della mia voce, la velocità della scelta delle tazze. Apre contenta la scatola con i biscotti ancora tiepidi, la ringrazio, ne prendo uno e ne tiro via un pezzetto con le dita. Sono concentrata a masticare e a farmi andare giù il boccone di biscotto, buono ma secco, mentre lei mi racconta della morte della madre e di come a causa di questo lutto inaspettato abbia cominciato ad accumulare, accumulare tutto, qualsiasi cosa le si pari davanti, senza distinzione o preferenza. Smetto di masticare, rifletto su quella sua perdita, ingioio il bolo come meglio riesco mentre lei mi porge due bustine di un’infusione a base di una radice di cui non riesco a pronunciare il nome, Prova, mi dice. Zucchero? chiedo. Sì, anche latte di mandorla. Preparo, servo, soffio dentro la mia tazza, sorseggio. È disgustosa. Ti piace? mi chiede. Buona, mento.
Sembra a disagio per un attimo, si guarda intorno e mi fa i complimenti per l’ordine della casa. Le sorrido, la ringrazio e le dico che non posso creare disordine dal nulla. Praticamente zero mobili, zero suppellettili, zero di tutto. Il minimo per sopravvivere. Sono fatta così. Sorride brevemente anche lei, sorseggia l’infusione, guarda altrove. Misura, misura ogni cosa, bilancia risposte con azioni, mi studia.
Un silenzio nuovo e denso, scomodo e violento mi arriva addosso: siamo entrambe altrove, con corpi vivi ma semidisabitati nella stanza e la mente impegnata a esistere in altri spazi e tempi che non condividiamo. Dove siamo fuggite pur di non stare qui insieme? Eravamo qui un secondo fa, dove siamo andate a finire? Lei torna in sé improvvisamente e inizia a parlare a raffica, i suoi occhi diventano paludi scurissime mentre le sue dita iniziano a tamburellare su diverse parti del corpo: prima la fronte, poi il collo, la scapola, il centro del petto, l’incavo del gomito e così via. La guardo confusa, accenno un sorriso, non so cosa dire.
Dovrei chiederle cosa sta facendo o semplicemente restare a guardare, servire altra infusione di radice o fingere di dover andare in bagno per prendere tempo? Ricambia il mio sguardo e mi spiega che il Tapping, questa tecnica che prevede il tamburellare con le dita su precise parti del corpo per alcuni secondi, la aiuta a mantenere sotto controllo l’ansia e le dona conforto. Ti senti ansiosa?, le chiedo. Abbastanza, mi risponde, non è stato un periodo facile. Ho appena interrotto una relazione di cinque anni con il mio compagno perché non se la sentiva di esplorare con me la possibilità del poliamore, Capisco, le dico in un sussurro, mi dispiace, si vede che ci stai male, All’inizio mi aveva detto che gli piaceva l’idea di aprire la nostra relazione a nuovi legami e nuovi sentimenti, ma poi ha cambiato idea dal giorno alla notte, mi ha detto che si chiamava fuori e ci siamo lasciati nel giro di una settimana. Cinque anni terminati così, mi spiega con tristezza. Siete rimasti in buoni rapporti?, domando ancora, No, non direi, anzi, vive già con un’altra donna, penso anche che si sposeranno presto, se posso azzardare una previsione, mi risponde con lieve sarcasmo.
Ho la sensazione che questa donna sia trasparente, che io sia trasparente quando sono accanto a lei, e che non riusciamo a farci corpo in nessun modo, a esistere nel desiderio neppure per mezzo secondo. Il Niente. Un Niente irrimediabile, definitivo.
La guardo seduta sullo sgabello della cucina andare costantemente in frantumi davanti a me e ha una compostezza nel farlo che ammiro e rispetto tantissimo. Ha una grazia nel disintegrarsi che mi lascia colma di stupore. Vulnerabile, sottile, tutta nervi e sorrisi, con la voce crepata ma incapace di far-si silenzio, non si nasconde, non si nega, non si finge altro da se stessa. Fisso i tovaglioli di carta che ho comprato apposta per lei, le tazze migliori che ho in casa piene di infusione schifosa, le briciole di biscotto sparse ovunque e mi chiedo per un attimo che cosa le accada quando tace o quando smette di agitarsi. Dentro questa donna ci sono universi splendidi e terribili che non imparerò ad abitare.
Lei non ha odore e questo mi confonde, mi disorienta, mi rende cieca davanti a lei. Tutta la mia vita si è retta sugli odori e su quelli ho preso le decisioni più importanti. Lei non ha odore, la sua maglia verde militare con il cappuccio non ha odore, i suoi capelli che si muovono continuamente non hanno odore, il suo respiro non ha odore. Com’è possibile? Come si può esistere senza avere odore, essere odore? Vorrei che avesse un odore qualunque, per poterla sentire solo per un momento.
Attendo la fine di questo tempo nel quale non siamo riuscite ad attraversarci, a conoscerci sul serio, a essere vicine. Percepisco un vuoto fra noi e reagisco con gentilezza alla separazione di quello che non si è unito. S’infiltra fra le costole il senso di colpa per non riuscire a sentire quello che avevo sperato di sentire: attrazione, gioia, interesse, allegria, energia per una nuova possibilità emotiva che mi si apre davanti. Colpa nei confronti di me stessa per non essere riuscita a donarmi quello che desideravo e di cui pensavo di avere estremo bisogno, e colpa nei suoi confronti per non averle dato nulla di me e non essere stata all’altezza delle sue aspettative.
C’è qualcosa di straordinario e demente in quello che abbiamo condiviso per alcuni giorni e che si è poi trasformato in questo Niente senza appelli, senza ganci, senza brecce: siamo state perfette l’una per l’altra, virtualmente perfette, fino a quando abbiamo davvero cominciato a e4sistere e ci siamo disintegrate a contatto con il primo strato di realtà.
Come siamo arrivate a questo Niente sedute nella mia cucina?
Sono state la fame, l’app per sole donne, le poche righe scritte velocemente per presentarmi:
Animale umano non-binario, vegano, poliamoroso, curvy, sorridente e allegro cerca persone con le quali condividere relazioni serie, etiche e gioiose!”

 

La sua riposta è stata rapida, gentile, ci siamo piaciute da subito: lei grande comunicatrice, io spiritosa, lei madre, io senza vincoli, lei in piena tesi da scrivere per la specializzazione, io fra un turno e l’altro alla casa di riposo in cui ho trovato lavoro da quando mi sono trasferita in Inghilterra. Ci siamo scritte per un paio di settimane, poi una chiamata su Skype di un’ora e mezza serena e divertente, lunghi messaggi e qualche foto delle sue passeggiate nel bosco. Sembrava che andasse tutto molto bene, sembravamo funzionare: non più ragazze, con un pezzo di vita alle spalle da raccontare e condividere, un futuro da scegliersi insieme possibilmente molto diverso dal passato, valori comuni, obiettivi comuni, lo sguardo volto dalla stessa parte, in movimento, in crescita, con una ferrea volontà di cominciare da capo con l’amore, con gli amori, da affrontare unite.
Splendida la teoria. Solo teoria, però, perché poi nella realtà io mi trovo rappresa come un grumo di sangue antico, mentre lei è un fiume di parole che spazzano via ogni argine possibile. Lei è una gran donna, eppure non basta. Io sono io, e non basto.
Dopo venti minuti riceve una telefonata dal figlio maggiore, deve passarlo a prendere a casa di un amico. Ci abbracciamo con un certo imbarazzo, brevemente, e ci salutiamo guardandoci di sfuggita. Scende i gradini, attraversa il giardino, non si volta. Così le dico addio senza averle mai realmente detto benvenuta.
Non ci sentiremo più.
Metto le tazze nel lavello, spazzolo via le briciole dei biscotti dalla, apro una finestra e rimango in piedi in mezzo alla stanza per qualche minuto: immobile, respirando a fondo, con il viso rivolto verso la porta d’ingresso, ascoltando i rumori in giardino. Cosa sto aspettando di sentire? I suoi passi che percorrono il giardino ancora una volta, lei che rientra in casa correndo e mi dice ansimando che ci siamo sbagliate, che abbiamo fatto un casino, che siamo semplicemente disabituate agli amori nuovi, che dovremmo riprovare?
Lasciala andare. Chiudi la finestra che fa ancora troppo freddo. Vai a fare la pipì. Prepara qualcosa per cena, sta diventando tardi, tra poco avrai fame.
Non udirò più nessun passo in giardino, chiuderò a chiave la porta d’ingresso verso le otto come al solito, terminerò di leggere il libro lasciato sul pavimento accanto al letto, mi masturberò, ripenserò a lei ai suoi biscotti alla schifosa infusione di radice ai suoi capelli ai suoi occhi alla sua maglia con le maniche tirate costantemente giù al fatto che adori il mio accento, mi dispiacerà tanto per come è andata a finire e mi addormenterò al suono della chitarra acustica suonata dai ragazzi che abitano nell’appartamento sopra al mio.
Cancellerò il mio profilo dall’app pochi giorni dopo.
Rimarrò con la fame.
Una frase mi girerà in testa per settimane pensando a lei: che fottuto peccato!

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