Il pappagallo nel petto

di bulander
Illustrazione di Federico Zenoni

Si distinguevano subito da tutti gli altri, poveretti. Non solo perché avevano enormi orecchie a sventola a furia di portar la mascherina giorno e notte, ma c’era anche chi s’era trovato con un braccio in più che spuntava dalla schiena, chi con un occhio in mezzo alla fronte, chi con una lunga coda che a fatica il mantello riusciva a nascondere. Ed erano i più fortunati perché gli altri da tempo erano scomparsi. L’umanità aveva perduto circa tre miliardi di individui, tra Covid e vaccini anti-Covid. Ma si era assicurata in tal modo ancora un paio di secoli di sopravvivenza, altrimenti l’esplosione demografica unita alla crisi alimentare – determinata dai raccolti distrutti dal clima – ne avrebbe decretato la fine.
Anche i no vax avevano perso qualcuno per strada ma non c’era paragone coi vaccinati.
Brontolava Prospero Lenticchia, no vax della marcia su Roma: “Glielo avevamo detto in tutte le salse. Non vaccinatevi! Non sappiamo le conseguenze di questi vaccini, gli effetti collaterali, dunque perché fidarsi delle case farmaceutiche o dei governi? Ma loro non hanno voluto sentir ragione, correvano a vaccinarsi come fosse stato andare a una festa da ballo! Guarda a quel disgraziato di mio cugino Biagio cos’è capitato!”

 

 

In effetti Biagio Lenticchia era stato proprio sfortunato. In apparenza, visto da fuori, era tutto normale, due braccia, due gambe, due occhi, un solo naso, due orecchie (a sventola). Era anche simpatico, scherzava. Ma di tanto in tanto, senza alcuna ragione e senza che si potesse stabilire una qualche correlazione con la realtà, gli si apriva improvvisamente il petto e ne usciva fuori per una frazione di secondo una specie di pappagallo attaccato a un mollettone che lanciava nello spazio uno straziante “fuck you” e poi rientrava nel petto, senza lasciare tracce, neanche un rossore. Non era chiaro se si trattava di un effetto ottico, di una forma di luce o se avesse una consistenza corporea. Radiografie eseguite con le tecniche più sofisticate non erano riuscite a individuare nulla di strano, nessun corpo estraneo nel petto di Biagio Lenticchia, nulla. Il perroquet, come lo chiamava il cugino Prospero, insegnante di francese alle medie, era scomparso, volatilizzato. Inoltre, il fatto che questa cosa capitasse a intervalli del tutto irregolari più o meno a distanza di mesi, aveva reso impossibile una sorveglianza con telecamere in modo da poterlo fotografare nell’istante in cui usciva. Quindi non esistevano prove documentali della sua esistenza, se non la testimonianza del suo portatore sano (Biagio) e di qualcuno che aveva assistito per puro caso a una delle uscite del perroquet e ovviamente, colto di sorpresa a vedersi urlare in faccia “fuck you” da un qualcosa uscito dal petto del suo interlocutore, figuriamoci se aveva avuto il tempo e la presenza di spirito di estrarre il cellulare e di fotografarlo. Anzi, le sortite del perroquet erano così fulminee che esistevano versioni differenti sul suo aspetto. Qualcuno per esempio giurava di aver visto una beccaccia; Don Pertibon, il velista italo-americano amico di Biagio, era sicuro di avere intravisto le fattezze di un gabbiano e così via. L’oggetto diventava sempre più misterioso. E Biagio non accusava nessun disturbo, nessuna difficoltà respiratoria, nessun peso sul petto, non tossiva, non vomitava. Decine di stetoscopi dei clinici più illustri a livello mondiale si erano posati sul suo petto. Nessun soffio, nessun rantolo, nessuno sfrigolio, niente, i polmoni di Biagio Lenticchia erano perfetti. S’era disteso sul lettino dei migliori psicanalisti, nulla, nessuno ci aveva cavato un ragno. Gli avevano portato davanti dei pappagalli veri nella speranza che, al loro richiamo, il misterioso perroquet avrebbe risposto. Nulla.
Finché un giorno bussò alla sua porta un certo Alexej Rotanovich Borissorski, professione di copertura critico d’arte, in realtà agente dei servizi russi, sezione cyber attacks. Il quale gli espose, in un italiano stentato, la sua teoria:
“Caro signor Lientichia, sono sicuro che noi potere risolvere suo problema di petto. Noi possedere più grande archivio mondiale algoritmi presenti in tuti programi, aplicazioni…tuto digitale di tuto mondo conservato, catalogato nostri archivi, diecimila nuovi al giorno arrivare e noi catalogare. Noi tratare big data meglio di cinesi, americani non valere uno copeco. Italiani buoni pizza, pastasiuta pummarola… ahahah.”
“E secondo lei allora a me che succede, dove diavolo è questo pappagallo?”
“Noi studiato e pensato. Loro iniettato a lei con vaccino microchip nova generazione. Non potere individuare perché lui prende segnale solo in certi casi scelti da programa. Quali? Non potere sapere. Per esempio solo quando lei dire “pulcino” oppure “bandiera”. O quando lei stare in camera con luce rossa, o quando lei ascoltare radio “Traviata”. Alora lui si svegliare e collegare a app che fa partire pappagallo. Uno secondo, zic zac. Finito pappagallo, microchip no morto ma tornato a dormire, niente segnale lui voi non trovare. Fino a prossima volta che lei dire, per esempio, “pulcino”.”
“Non c’è rimedio, allora? Me lo tengo tutta la vita?”
“Noi studiato e trovato soluzione. Noi mettere dentro lei sensore speciale tipo “Stalin 18”, produzione di nostri laboratori. Lui aspetta. Quando microchip iniettato con vaccino svegliarsi e segnala e scatta app e scatta pappagallo, nostro “Stalin 18” più veloce registra algoritmo di app, decodifica e distrugge tutto, microchip, app, pappagallo… tutto. “Stalin 18” non perdonare.”
E così Biagio Lenticchia si lasciò convincere, tanto, microchip di più, microchip di meno…
Ma suo cugino Prospero qualche perplessità l’aveva.
“Perché sei sospettoso?” – gli chiese Biagio –“sembrava una brava persona. Uno che ti dice subito che è dei servizi segreti… dev’essere uno onesto, non ti pare?”
Alexej tornò per installargli uno “Stalin 18”. Tre mesi dopo, mentre Biagio, che aveva trovato l’anima gemella, stava pronunciando il fatidico sì davanti all’altare, il petto gli s’aprì di colpo ma al posto del pappagallo apparve per un istante… una matrioska.
E un “fuck you!” ancora più straziante del solito rimbombò sotto le volte della chiesa.

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