Inchiesta sui PFAS

di Giovanna Visco
Vignette di Pat Carra

 

Il dramma interminabile legato ai composti perfluoroalchilici (PFAS), una famiglia di migliaia di polimeri sintetici inventati dagli anni ’40 in poi del ‘900 che rendono resistenti all’umido, ai grassi o al calore una molteplicità di prodotti, ha molte similitudini con tutte le altre vicende delle sostanze contaminanti, ma allo stesso tempo qualcosa in più. I concatenamenti di atomi di carbonio e fluoro che caratterizzano i PFAS, chiamati anche forever chemicals (sostanze chimiche eterne), sono tra i legami chimici più persistenti, con conseguenti problemi non solo di inquinamento industriale, ma di chiunque, per le esposizioni a milioni di oggetti e dispositivi di uso quotidiano che li contengono – dalle pentole antiaderenti, all’abbigliamento e calzature in Gore-Tex, ai cosmetici, vernici, elettronica e dispositivi, e via via fino alle scioline con fluorurati, ora vietate dalla Federazione Internazionale dello Sci. L’accumulo ambientale e biologico dei PFAS, veicolato soprattutto dal consumismo, è correlato a cancri, aborti, infertilità, ridotta densità ossee nei bambini, disfunzioni alla tiroide e del sistema immunitario, ma in nome dell’uso essenziale, caratterizzato dall’ipocrita dilemma “salute o progresso”, continuano a essere prodotti e impiegati, assicurando lauti dividendi agli azionisti dell’industria chimica e vantaggi alle industrie manifatturiere.
In un mondo equo anche una sola vita spezzata dalla chimica artificiale sarebbe eticamente inaccettabile, ma nel sistema attuale, che assegna massimo valore al profitto a scapito della natura e del rapporto ambiente-lavoro, gli unici realismi possibili sono il nervosismo degli investitori, che non tollerano le sentenze che obbligano a risarcire i danni prodotti, e le proiezioni economiche, come quelle del Consiglio Nordico dei Ministri (qui), riferite ai paesi EEA (European Economic Area), che stimano in 52-84 miliardi di euro il costo sanitario dell’inazione sui PFAS.

 

Gli interessi economici e militari prevalgono sul diritto a una buona vita

La lunga cronaca dei fluorurati mostra quanto prevalgano gli interessi  economici e militari sul diritto di tutti a una buona vita. Tra le più eloquenti, quella degli AFFF, gli schiumogeni antincendio Aqueous Film Forming Foam, creati e brevettati dalla marina militare statunitense per estinguere gli incendi complessi da combustibile. Sfruttando le proprietà dei PFAS, a partire dal fluorurato PFOS, prodotto in esclusiva dalla multinazionale 3M, in breve tempo gli AFFF si sono diffusi in tutto il mondo, condizionando gli standard internazionali di sicurezza e alimentando la crescita esponenziale di depositi e stoccaggi dei combustibili liquidi. Dopo oltre 40 anni e una lunga catena di gravissime contaminazioni, nel 2016 il Pentagono ne ha limitato l’uso in tutte le basi statunitensi, considerate una delle principali fonti di contaminazione da PFAS di suolo e acque sotterranee del Paese. Qualche mese fa  il Congresso ha imposto ai militari di rilasciare i requisiti delle schiume antincendio non fluorurate entro gennaio. Meglio tardi che mai, ma intanto il perverso legame tra rischio di esposizione, contaminazione e libero mercato si è strutturato con l’impiego civile degli AFFF, dai vigili del fuoco agli aeroporti, raffinerie e depositi.
Attualmente, come osserva Bloomberg, lo sviluppo e la diffusione di nuove tecnologie antincendio negli Stati Uniti è rallentata dalle esitazioni del mercato. I costi elevati di decontaminazione e di sostituzione degli AFFF fluorurati, mettono alla finestra enti e imprese. Aspettano che siano comprovati nuovi prodotti antincendio che soddisfino gli standard militari, a cui seguirà la corsa all’acquisto, che rapidamente produrrà ingenti quantità di materiale rottamato pericoloso e un numero imprecisato di bonifiche di serbatoi, tubi e valvole, con costi enormi ancora da stimare, aggravati dalle interruzioni delle attività che comporteranno.
In UE le tipologie AFFF sono state ristrette dai divieti di produzione, immissione sul mercato e uso del fluorurato PFOS e di vendita al pubblico di miscele con PFOA; nel 2015 sono stati sospesi anche produzione e commercializzazione di schiumogeni con tensioattivi fluorurati a catena lunga, e dal 2020 sono vietate miscele e articoli con oltre 25 microgrammi per chilo di PFOA. Infine, una proposta tedesca prevede di limitare il PFHxA e suoi sali. Ma rispetto alle migliaia di vittime, alle contaminazioni e alla complessità delle bonifiche affidate a sistemi a base di carbone attivo, i tempi decisionali sono troppo lenti, come testimoniato anche da numerosi scienziati, che non lasciano spazio a illusioni. Un recente studio della Università di Stoccolma e del Politecnico di Zurigo, ha riscontrato 4 acidi perfluoroalchilici (PFOS,PFOA, PFHxS, PFNA) in ogni campione di acqua e terreno di diverse aree del mondo. In particolare, l’acqua piovana ha mostrato concentrazioni di PFOA e PFOS spesso superiori a quelle fissate per la potabilità dell’acqua negli Stati Uniti, e valori di PFOS superiori al livello di sicurezza europeo per le acque interne di superficie. Come spiegano gli scienziati, l’interazione atmosfera-mare con la pioggia sparge PFAS dappertutto, immessi in circolo continuo di accumulazione idrosferica dagli aerosol degli spruzzi marini oceanici.

 

 

PFAS Food

Ma anche il mare con i suoi abitanti è ormai seminato di PFAS. Uno studio di ARPAT, IRSA-CNR e Università di Siena, per la prima volta ha indagato i fluorurati negli organi interni del cetaceo più comune del Mediterraneo, la stenella striata. I risultati mostrano concentrazioni di PFAS in tutti i campioni estratti da 26 esemplari spiaggiatisi sulle coste toscane, con valori più elevati nei delfini più giovani, lasciando ipotizzare il passaggio dei PFAS con l’allattamento.
A migliaia di chilometri di distanza, anche a Tampa Bay (Florida) nel Golfo del Messico, un gruppo di scienziati ha trovato in tutti i campioni di 26 specie diverse di pesce, 25 PFAS, con concentrazioni maggiori in quelle di fondale.
Ricerche come queste allarmano sulla sicurezza delle catene alimentari e del consumo frequente di pesce, ma in realtà il campo di azione dei PFAS si estende a tutta l’alimentazione, e non solo a causa di suoli e acque contaminati. È il caso di molti contenitori alimentari usa e getta che hanno sostituito quelli di plastica, continuando a diffondere falsi miti consumistici e comodità taroccate. Test su oltre 100 tipi di contenitori per alimenti non di plastica, come sacchetti di carta per patatine fritte, involucri per hamburger, insalatiere in fibra modellata e piatti di carta monouso, condotti da Consumer Report (qui) hanno rinvenuto fluorurati in tutti i  campioni. Secondo WE ACT for Environmental Justice, l’utilizzo indiscriminato di PFAS ha una valenza fortemente sociale, perché i destinatari principali di questi tipi di contenitori sono gli abitanti dei quartieri più disagiati, dove i fast food imperano. Con il sollevarsi delle proteste, alcuni marchi ne stanno eliminando l’uso, mentre la California ha da poco deciso di limitare il fluoro organico ammesso nei contenitori di carta per alimenti. In Europa, invece, per la prima volta al mondo, nel 2020 la Danimarca ha vietato del tutto l’impiego di PFAS nella fabbricazione di carta e cartone per alimenti.
I rischi di contaminazione alimentare non lasciano indenni nemmeno gli animali domestici. Dopo un’inchiesta giornalistica che nel 2021 ha constatato livelli di PFAS nel sangue di cani  e gatti, un laboratorio indipendente certificato, per conto di EWG (Environmental Working Group), ha scoperto concentrazioni di PFAS in tutti i sacchetti esaminati di 7 noti marchi di cibo per animali (qui). Secondo EWG, il rischio del passaggio dei PFAS nell’organismo è legato non solo  agli  imballaggi alimentari fluorurati, ma anche alla polvere negli ambienti domestici e di lavoro prodotta da tutto ciò che li contiene, che successivamente inquina i suoli attraverso il percolato delle discariche. Nonostante l’esposizione ai PFAS sia causa di morte e gravi patologie negli animali, ancora nessuno si fa avanti per eliminarli dalle confezioni di cibo.

 

Gli Stati e il triste primato italiano

A livello internazionale, la Convenzione di Stoccolma nel 2009 ha vietato produzione e uso del più famigerato fluorurato, il PFOS, e sta regolando l’eliminazione globale del PFOA.
Il REACH (qui) che regolamenta i contaminanti chimici in UE, ha limitato ulteriormente il PFOA per la sicurezza alimentare, e sta considerando l’eliminazione degli acidi PFHxS e PFCA C9-14, ma agendo nel solco del compromesso tra la protezione della salute umana e ambientale e la competitività dell’industria chimica europea, perimetra solo alcuni PFAS. Come spiega il Financial Time, esso è concepito per allineare l’UE ad altri mercati strettamente regolamentati come quelli di Cina e Corea, ma altri paesi meno severi, come gli Stati Uniti, potrebbero approfittarne per fare concorrenza sleale. Il Green Deal prevede l’eliminazione graduale dei PFAS non essenziali, ma il processo iniziato nel 2020 guidato da Danimarca, Germania, Norvegia, Paesi Bassi e Svezia si sta rivelando troppo lungo, aggravato dall’approssimarsi delle elezioni europee 2024. Per questo 60 organizzazioni hanno lanciato un appello di azione tempestiva del REACH, che vieti l’uso di qualsiasi PFAS nei prodotti di consumo entro il 2025, e del tutto entro il 2030. L’industria chimica europea chiede, invece, una transizione verso prodotti meno tossici sostenuta dalla finanza pubblica, benché diversi esperti affermino che alternative più sicure già esistono e il divieto di produrre PFAS non comprometterebbe la maggior parte degli usi essenziali.
Resta sempre la possibilità ai singoli Stati di alzare la protezione dai PFAS con iniziative e normative autonome. Il governo belga nel 2021 si è accordato con la 3M Belgium per un risarcimento alle Fiandre di oltre 570 milioni di euro e per la bonifica della rete idrica prossima allo stabilimento di Zwijndrecht. Paradossalmente, è belga  la multinazionale che produce nello stabilimento italiano Solvay Solexis di Spinetta Marengo, in provincia di Alessandria, il cC604, un PFAS brevettato in esclusiva. L’impianto è uno dei più grandi del gruppo, che ne conta 180 in tutto il mondo, e unico stabilimento chimico che in Italia produce ancora PFAS,  benché nel 2019 sia stato condannato per disastro ambientale e dal 2021 sia nuovamente sotto indagine.
Del resto, l’Italia ha il triste primato europeo di contaminazione nota da PFAS, causata in decenni di sversamenti a Trissino, in provincia di Vicenza, dalla Miteni SpA , impianto chimico di prodotti intermedi, passato dalla Marzotto alla joint Mitsubishi-Eni e poi alla sola Mitsubishi e in ultimo al gruppo lussemburghese ICIG – International Chemical Investors Group. Nel  triangolo di circa 180 km2 tra Vicenza, Padova e Verona, neanche una delle falde acquifere più grandi d’Europa si è salvata, coinvolgendo circa 800mila persone. Le indagini, mosse dalla mobilitazione popolare e degli enti locali, nel 2021 hanno portato sul banco degli imputati quindici manager apicali Miteni, che intanto nel 2018 è stata dichiarata fallita e messa in vendita. Acquistata dalla Viva Live Sciences Private Ldt, traslocherà in India.
Nonostante tali tragiche enormità,  a parte l’aver limitato  nel 2014 il livello consentito di PFAS dell’acqua potabile, l’Italia non ha ancora una legge specifica sui fluorurati, e solo nel 2021 e nel 2022 sono stati presentati due disegni di legge, perduti nel buco nero delle vicende politiche e parlamentari.
Nel libero mercato degli Stati Uniti, invece, recentemente la procura generale della California ha citato in giudizio i produttori di PFAS, tra cui 3M, che negli ultimi 20 anni ha gradualmente eliminato la sua produzione di PFOS e PFOA,  e DuPont, più volte nell’occhio del ciclone per il Teflon. L’accusa è di aver consapevolmente nascosto la tossicità dei PFAS con campagne decennali di inganni, facendoli proliferare nelle acque, nei vestiti, nelle case e “persino nei nostri corpi”, contaminando il sangue del 98% dei californiani. I proverbiali avvocati statunitensi sono sempre più indaffarati contro i PFAS, tanto da spingere la 3M a dichiarare il recente fallimento della sua controllata Aearo Technologies, essendo pervenute circa 300.000 cause intentate dai veterani delle forze armate statunitensi per danni all’udito causati dai PFAS contenuti nei tappi Combat Arms versione 2. Sono in corso anche altri dibattimenti per gravi danni alla salute provocati dai PFAS in maschere e respiratori da lavoro, e sono in aumento gli accordi locali che costringono i produttori a finanziare le opere di decontaminazione.

 

Bonifiche controverse

Recentemente, l’EPA (Environmental Protection Agency) ha proposto un nuovo regolamento che obbliga a segnalare e bonificare i siti contaminati da PFOA e PFOS,
Il regolamento dovrebbe entrare in vigore nel 2023, ma come riporta Bloomberg, la fase di consultazione pubblica ha evidenziato forti pressioni contrapposte. Da un lato, ci sono  gruppi e associazioni che ne vorrebbero una rapida emanazione, soprattutto per le comunità a basso reddito, tribali e di colore, che vivono nelle vicinanze di  siti industriali, militari e di trattamento delle acque reflue. Dall’altro, si è evidenziata l’opposizione di servizi idrici,  gruppi di agricoltori, aeroporti e molti governi locali motivata dalla discrezionalità della misura, che non garantisce la loro esclusione dalle enormi spese di decontaminazione ambientale per danni non creati da loro. Un timore analogo è espresso dalle industrie che non producono o vendono prodotti con PFAS, tanto più che per il solo settore privato, la Camera di Commercio degli Stati Uniti ha stimato le spese di bonifica in 11-22 miliardi di dollari complessivi, suddivisi i 700-800 milioni annui.
Anche i produttori si sono espressi, e in particolare la 3M, ricordando il suo impegno a bonificare i siti in cui ha prodotto o smaltito PFAS. Benché voglia collaborare con l’EPA, 3M non è d’accordo con la sua “designazione proposta di PFOA e PFOS come sostanze pericolose” giudicandola “inutile, inappropriata e non basata sulla migliore scienza disponibile”. Per ridurne le esposizioni, secondo 3M,  occorre prioritariamente aggiornare le infrastrutture e definire gli standard di pulizia, in molti casi già in corso.
Solo pochi mesi fa l’amministrazione Biden ha emesso avvisi sanitari sul rischio per gli esseri umani di un consumo anche minimo di PFAS.

 

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